lunedì 28 gennaio 2008

Ubahn, parte II

Il lettore mp3 si intreccia con la voce metallica, in maniera odiosa e indissolubile. Non sussiste possibilità alcuna di districare quel ferreo dolore da quanto emesso dalle cuffie. Cercare gli sguardi altrui diviene una speranza di salvezza. Si cerca qualcosa fuori.
Se poi i percorsi ferrati risultano poco noti, o se addirittura le immagine esterne non riescono ad armonizzarsi con la capacità visiva e con la memoria, come capita al sottoscritto, all’incredulità seguita all’irruzione della distonia si accompagna l’inquietudine. Non più linee di fuga verso l’esterno, a cercare ciò che famigliare non potrà mai diventare; ma anche l’inaspettato quanto ingrato compito di sondare l’umanità, di penetrare il nesso nascosto e segreto tra la signora anziana, lo studente, il tossico dipendente e l’immigrato turco. In quel nesso il mio momento, il mio ritagliarmi la mia porzione di spazio, la mia fermata.

Se queste linee di fuga fossero proiezioni parigine, probabilmente si dissolverebbero nel buio dei sotterranei, dove le vetture attraversano uno spazio inesistente, se non aldifuori del percorso severamente riportato sulle microscopiche mappe gratuite distribuite presso le biglietterie. Anche quello spazio è fittizio, perché non riporta nomi di strade, parchi e musei, ma solo approssimativamente 24 linee di colore diverso, 24 creazioni originali di non luoghi a procedere. A volte si viene allo scoperto, ma per poco, giusto il tempo di ricordarsi che tuttavia quello spazio un’esistenza la possiede, anche se non umana.

Ma le linee di fuga che mi attraversano ogni giorno a Colonia non si perdono nel buio. Si perché quei treni che si inabissano sottoterra, rispuntano sempre, rinnovati, per diventare tram, e per poi immergersi ancora. Lo spazio qui è quello seghettato di un pettine, alternato, tra il chiuso e l’aperto; solo che qui non si passa per capelli grassi e unti, ma tra i battiti veloci di ciglia nervose, come un fastidioso tic estivo.

mercoledì 23 gennaio 2008

Tutte le cose di Cristina


Il liquido delle lenti, l’accappatoio, le pantofole di spugna, una quindicina di cd, due o tre libri, la chitarra, le mutande, le calze, la borsa di pelle, la sciarpa, la giacca di velluto…

Cristina era andata via per sempre senza sbattere la porta e non si era fatta sentire neanche per riprendere le sue cose.

…gli occhiali da sole, la tazza della colazione, la trousse per il trucco, due paia di scarpe (col tacco e senza), i pantaloni, la minigonna jeans, un mare di anellini e collanine, il deodorante al gelsomino, lo spazzolino…

Cristina aveva gridato che ero un buono a niente, che non mi amava più e che non ero capace neanche ad aprire le cozze.

…il pettine a denti larghi, le sigarette, l’accendino, la spazzola, la vestaglia, il pigiama, l’album di fotografie della prima comunione…

Cristina aveva deciso che avremmo mangiato linguine con le cozze. Io avevo comprato le cozze e le avevo portate a casa. Le avevo buttate nel lavandino e lei aveva detto di aprirle. E chi le sa aprire? Avevo risposto io. Lei mi aveva guardato con stupore. Sei un buono a niente, aveva gridato, non sei capace neanche di aprire le cozze. Qui devo fare tutto io.
Cristina era andata via per sempre senza sbattere la porta.

…il grembiule che usava per cucinare, i pastelli, le penne, tutti i suoi disegni, lo specchietto retrovisore della sua macchina ormai rottamata, il cuscino, il fermaglio a forma di farfalla che le fermava i capelli di lato quando voleva vestirsi da bambina dispettosa, la crema idratante effetto notte…

L’avevo inseguita giù per le scale fino al portone e poi per strada. Avevo gridato, Dai ci provo ad aprirle le cozze. Cristina non si era voltata. Nei suoi ricordi sarò per sempre quello che ha detto così per riconquistarla.

…la canotta verde per il mare, la playstation, le caramelle alla mela, le riviste di arredamento, il maglione azzurro, il portatovagliolo, i pinoli che sgranocchiava davanti alla televisione, il cappello di paglia, il pagliaccio profuma biancheria, il reggiseno di pizzo, il reggiseno giallo, il reggiseno nero, il reggiseno col ferretto, il reggiseno nuovo, la matita per gli occhi, il brucia essenze, la videocassetta di quando l’avevano intervistata a telenorba…

Ero tornato a casa ed avevo imparato ad aprire le cozze. C’era anche un coltello apposito, lo stesso che si usa per il parmigiano. Era suo anche quello. Avevo messo un po’ di olio nel tegame e acceso il fuoco.

…i ritagli di giornale, la radiosveglia, il latte di soia, i biscotti di crusca, gli assorbenti, l’orologio da polso, il coltello per le cozze, ciuffetto…

Cristina se ne era andata per sempre senza sbattere la porta e non aveva portato con sé neanche ciuffetto. Quando versai le cozze sgusciate nell’olio bollente lui scodinzolò… pappa in arrivo… ignaro che la padroncina ci aveva abbandonati.
Non siamo bravi a fare niente, gli dissi mentre gustavamo le linguine. Lui scodinzolò… ancora pappa… ma non fu accontentato. Da oggi si cambia vita. Tutti parleranno di noi e Cristina se ne accorgerà se siamo o no dei fannulloni.
Ciuffetto era un cucciolo e non fu difficile addestrarlo. Passammo ore ed ore sugli scogli e facemmo esercizio ma dopo meno di un anno Ciuffetto era l’unico cane da taratuffo al mondo. In un ora ne prendeva a decine. A volte rimaneva sott’acqua così a lungo da fare spavento. Comparimmo insieme sulla prima pagina di Amico Cane. Sotto la nostra foto c’era scritto Il cane che caccia i limoni di mare… è così che il resto mondo chiama quelli che a Bari sono semplicemente i taratuffi. Io fui nominato addestratore dell’anno dall’associazione nazionale addestratori e Ciuffetto ebbe in regalo un gigantesco osso e un collare di lusso.
Quando fummo invitati in televisione ci sperai davvero ma Cristina era andata via per sempre senza sbattere la porta ed aveva lasciato tutto, soprattutto me.

Cristò

la corte


Un sole intenso, appena inclinato… fisso la meridiana di tufo di fronte a me sulla porosa facciata di questa specie di piccolo municipio.

Segni oramai indecifrabili cadono intorno ai raggi di diverse misure che partono da questa freccia di metallo arrugginito contorta posta al centro.

Sembra che il sole si sia spostato, come se un distratto pigro cataclisma ci avesse portato altrove, in un mondo diverso, mentre sonnecchiavamo alla controra.

Di riflesso lo sguardo cade ora sulla mia ombra sulla pietra di tufo, una piccola ombra che pure indica una direzione, sembra che oscilli crepitando nei piccoli forellini calcarei della pavimentazione dove ho messo il passo, mentre il mio sguardo cerca ora la chianca ghiacciata e bianca nascosta in fondo alla piazza, quella chianca liscia e dura che l’antico sapere del mastro pose nei vicoli. Questo pensiero mi pare adesso una sete, una sete inappagabile, una sete convocata da un rumore alla distanza, dalla sensualità del motore fluido della fontana.

È una sete che galoppa con l’acqua che cade a fiotti irregolari, sorniona e morbida.

E la ragazza, scoprendosi graziosamente il collo, mentre tiene i capelli, beve.

Beve lucidando le sue labbra al confine tra rosa e lilla, morbido su morbido, acqua su pelle, poi con naturalezza usa il dorso della mano per asciugarsi, senza pensieri, senza falsa eleganza e per questo con gesto di lupa e cerbiatta.

La lascio fatalmente sfuggire tra i vicoli, seppure ci siamo guardati. Lei non si attarda ad invitare.

Seppure so di essere io a dover dire qualcosa, ad inseguire, a costruire, non la seguo.

Seppure questa estate in me mi invita a correre e sciamare con lei, come con l’ape regina, a piagnucolare di notte come un gatto alla finestra sua, altro mi prende, una immagine e un desiderio più alti.

Sento e so che da lei tutto questo è nato… ma è andato oltre: quel desiderio è divenuto mistico, è esploso e si è disseminato in ogni pietra di questa corte.

Questo desiderio ha fatto la corte e se n’è andato in alto. È divenuto i mille occhi delle persiane, mille sedie pigre dietro le tende filiformi dei freschi bassi, invisibili.

È divenuta vita oltre la vita.

Vita che scala i segni della vita e che trascende, che trasale, che come un fulmine al contrario unisce i punti bruciando in un istante.

Torna nelle nubi, in cielo.

Un cielo collettivo fatto di mille abitanti segreti al riparo dal caldo del sole, che mi comunicano dallo sguardo la loro vita segreta e in me chiedono un pezzo della realizzazione dei desideri pubblici di continuare la vita, mi chiedono un ruolo fastidioso e rilassante, come fare il morto nella corrente di levante a mare, farsi portare.

Una morbida compatta trascinante acqua che ci porta.

Ora non voglio turbare con azione questa bellezza.

Questa bellezza di cui cerco di far parte facendo spazio in me, senza violarla, con i ritmi lenti dell’amore di provincia, fatto di sete, fatto di seta.

Questa bellezza che ieri, solo ieri, ad agosto, era saccheggiata dai turisti che hanno saggiamente riempito di rimmato il pitosforo ipertrofico delle siepi cubiche inscatolate davanti al bar al neon, ma che pure han violentato di mozziconi fumati il geranio della signora del basso… Cavallette.

Sembra ora curato da invisibile esercito di vecchiette.

Nella piccola eterna cura delle corti di paese lavano la strada come casa loro, avventurandosi ben oltre la soglia e, alla controra, sedute dietro persiane verdone ruvide di legno guardano il mondo vivere. Guardano bimbi nei vicoli giocare nuovi giochi strani e quelli eterni. La sera, sedute in semicerchio allargano fuori la loro corte nel fresco, alle commari che si vogliono unire.

Un grande vento di scirocco è entrato ieri aprendo la mia finestra (poggiata) e ha dato un altro ordine alle mie carte macchiate di sugo.

Queste parole, ora lo vedo, vogliono volare, ricordando qualcuno, sono stanche della penombra di un tavolo di legno e chiedono di tornare al giorno che le ha generate.

Queste carte pallide, diafane e bianche vogliono diventare di bronzo, smaliziarsi, durare nel tempo, acquistare colore al sole, vogliono essere specchio adesso e riflettere.

domenica 13 gennaio 2008

Diario/racconto: Ubahn, ovvero, metropolitana...

Partirei io, in una sorta di sacrificio iniziatico. Posto un po' alla volta stralci di un diario/racconto di quanto accade quotidianamente nella città in cui mi trovo accidentalmente a vivere, ossia Colonia. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate...

Prima parte del diario a puntate, o racconto, chiamatelo come vi pare.
"A volte la metropolitana di Colonia manifesta curiose distonie, piccole metafore di come le cose vanno al di fuori dai vagoni. Si perché la voce che solitamente annuncia l'approssimarsi di questa o quella fermata spesso si fa silente, bloccandosi per poi ritornare a farsi sentire chiamando una fermata che ormai non c'è più. E'quella voce metallica di una persona mai nata, ma che se fosse esistita avrebbe il volto di una pallida propagatrice di infelicità, a dare sicurezza ai passeggeri. Perché anche se si conosce a memoria il tragitto quotidiano del proprio treno, quello che si prende tutti i giorni senza alternativa alcuna, è quella voce che si fa associare alle diverse fermate, e non le immagini al di fuori dal vetro. Queste infatti distraggono il passeggero, lo accudiscono dolcemente accompagnandolo nell'illusione di una tranquillità apparente, all'interno del treno, in contrasto con il moto disordinato osservabile all'esterno. Ma quella voce, quella voce rompe l'imitazione di un improbabile benessere mattutino, e rimanda direttamente a quel disordine, a quel rumore che aspetta tutti i passeggeri, prima o poi...
Ma quando si verifica quella distonia tra la voce metallica e la fermata cui effettivamente ci si approssima, allora tutto viene a cadere. Gli sguardi dei passeggeri, dapprima persi lungo linee di fuga esterne, ciascuno a costruirsi il grande inganno, iniziano a cercarsi ansiosamente, compiendo l'inatteso miracolo, l'urgenza di una comunione...
L'incredulità, l'irruzione serena di un timore, finanche il tiepido terrore dei passeggeri contingenti, quelli che quella linea non la frequentano spesso, e che di quella propagatrice di infelicità credono di necessitare. Gli immigrati turchi e le ricche signore anziane dalle improbabili buste della spesa, ricolme di niente, gli studenti in piedi e i tossico dipendenti, sposi assieme a condividere le doglie di uno spazio non previsto, inesistente. Lo spazio tra la fermata erroneamente annunciata e quella realmente approssimantesi. L'incertezza del non luogo, e poi il divorzio, e via gli sguardi nuovamente fuori, all'esterno, a cercar da soli un riferimento".

Dove sono tutti quanti?


Quando negli anni '60 il fisico Frank Drake propose la sua equazione per determinare la probabilità di trovare civiltà extraterrestri intelligenti presenti nella nostra galassia, Enrico Fermi rispose con una domanda: "Dove sono tutti quanti?".
Se ci fosse qualche fisico disposto a spendersi per trovare una equazione equivalente a quella di Drake che valutasse la probabilità di trovare dei giovani valenti scrittori in Puglia io mi porrei la stessa domanda di Fermi. Sono sicuro che ce ne sono. Ma dove? Probabilmente a Roma, a Torino, a Milano... lontano da qui. Nicola Lagioia, per citarne uno davvero bravo, è lontano da parecchi anni.

Sarebbe bello potersi ritrovare a discutere tutti insieme, scambiarci opinioni, proporre scritture e letture.
Sarebbe bello creare un collegamento tra chi è andato via e chi è rimasto per scelta o necessità, imparare a conoscersi e ad aiutarsi.
Sarebbe bello trovare una risposta terreste al paradosso di Fermi e a chi chiede "Dove sono tutti quanti?" rispondere "Ma come, non lo vedi? Sono qui!"