martedì 26 febbraio 2008

Ubahn, parte III

Nelle zone centrali, vicino al duomo afflitto dal tempo, dove ancora si sentono le sirene della contraerea, si viene accolti da fermate alto-borghesi, luride di splendore a illuminare ciò che resta delle pellicce sintetiche. Sulle pareti, delle foto d’epoca, con una data: 1945. Nell’immagine il nulla. Appelhofenplatz vuol dire paura; una fermata bianca, dove la luce non dovrebbe splendere, costruita per ricordare come il paradiso terrorizzi i passggeri. Appelhofenplatz non si sostanzia in niente; porta con sé l’ignominia di quell’immagine, 1945, e poi il nulla.
Ma quando si esce dal centro, verso il ghetto dove vivo, il treno inizia ad urlare di un dolore lancinante, che raschia sui binari vecchi e consunti e non va più via, per finire a sera nelle pentole a pressione piccolo-borghesi, o nei minifrigo stracolmi degli immigrati. Qui l’irrompere dei timori passeggeri si raddolcisce nel tanfo dei mcdonalds, per poi perdersi disperato nei volti consumati e scavati di 40 dannati sotto l’acqua, prima di acquietarsi sopra le vetture unte e arrugginite. Appelhofenplatz non esiste, come non esiste ciò che per essa transita. Una serena luce annuncia una venuta a vuoto, due minuti di attesa, il dolce inganno di una rassicurazione, il tenero abbraccio di una madre al figlio ripudiato.

Ma Venloerstrasse esiste, come esiste l’urlo che scheggia le case della lego, e dilania i tessuti di cappotti fuori taglia, senza bisogno di gridare. Appelhofenplatz non esiste. Una voce che non esiste annuncia con dolcezza il blocco della circolazione, per cause lontane, l’assenza di pulsazioni di chi non atteso che le vetture si fermassero per ascoltarne l’urlo che da sotto ne promana.
Venloerstrasse esiste. A segnarne l’esistenza quel mare rosso a 20 metri dalla fermata, la salsedine coagulata, così sia. “Da simmer dabei! Dat is prima! Viva Colonia! Wir lieben das Leben, die Liebe und die Lust, Wir glauben an den lieben Gott und hab'n noch immer Durst”.

mercoledì 13 febbraio 2008

My funny Valentine


Prima di venire ad abitare da me, Lorenzo aveva visitato numerosi appartamenti. Quasi una trentina. Di ogni dimensione e in ogni parte della città. Non aveva lasciato nulla di intentato, convinto com’era che sarebbe stata la casa a scegliere lui e non viceversa.
E’ necessario precisare che cercare un appartamento in affitto di questi tempi è un’impresa quantomeno impegnativa. I prezzi sono proibitivi e i proprietari di casa diffidenti. Bisogna curare il look. In genere la giacca può bastare, anche senza cravatta. Bisogna avere un eloquio calmo e rassicurante, un buon lavoro con un contratto a tempo indeterminato. E’ importante dare l’impressione di essere persone silenziose. Non bisogna mai fare domande strane.
Lorenzo era carente su tutti questi punti.
La mattina del quindici gennaio di quattro anni si fermò accanto al 15 di via Macrobio. Ero lì ad aspettarlo da un quarto d’ora. Aveva dei jeans logori ed una casacca verde che spuntava sotto un cappottone troppo largo per le sue spalle. I capelli erano tutti scompigliati e gli occhi parevano appesantiti da una notte insonne ed alcolica. Portava nella mano destra una valigetta nera.
“Sono qui per la casa” disse.
Io aprii il portone e feci strada su due rampe di scale e poi su una terza più ripida.
“E’ all’ultimo piano – scherzai – ma fare le scale non può che far bene, non crede?”
Lui annuì con un breve movimento della testa. Pareva assente.
Appena diedi le due mandate con la chiave, Lorenzo spinse la porta ed entrò quasi scavalcandomi. Avevo il fiatone. Quelle scale che avevo salite, scese, corse, saltate nei primi trenta anni della mia vita adesso erano diventate incredibilmente faticose. Mi appoggiai al muro.
“Guardi pure la casa – dissi – io riprendo fiato. Non sono più un giovanotto”
Le mie ultime parole si persero contro il muro bianco del soggiorno. Lorenzo era già in perlustrazione.
Per non fare la parte del vecchietto avevo fatto le scale troppo in fretta e adesso i miei sessanta anni si stavano vendicando. La mia casa mi guardava. Sembrava sorridere di pietà. Completamente ristrutturata. Le porte nuove. I muri bianchi, neanche un buco o una crepa. I vecchi mobili di noce erano stati venduti ad un antiquario e adesso si aspettava alluminio, plastica, luci al neon e tendine colorate. La camera da letto che mi aveva visto nascere sussurrava al soggiorno: “Come s’è invecchiato Giacomino…” e la cucina: “...quante rughe e i capelli tutti bianchi.”
Lorenzo uscì dalla camera da letto e velocemente si diresse in cucina. Mi sentivo trasparente ma il respiro era tornato regolare. Mi avvicinai alla porta. Lorenzo guardava fuori attraverso la finestra.
“Guardi – mi disse all’improvviso – c’è un gatto sul cornicione di fronte.”
“Ha già visto la camera da letto e la cucina. Le manca ancora una stanza.”
“Appunto. Verrò a vivere qui con la mia ragazza – disse sollevando la valigetta che aveva in mano – ci deve lasciare un attimo da soli. Quella sarà la nostra stanza.”
Non ebbi il tempo di rispondere. Lorenzo si era già diretto nella stanzetta accanto al bagno, l’unica col balcone, chiudendosi dietro la porta.
Cominciavo ad innervosirmi. Il ragazzo era maleducato.
“Che brontolone che sei diventato” disse il soggiorno.
“Lascialo fare. E’ un così bel giovane” aggiunse la cucina con civetteria femminile.
“A noi piace – disse la camera da letto – e lo sai benissimo che il nuovo inquilino deve piacere soprattutto a noi… senti che bella musica…”
Mi resi conto solo in quel momento che dallo studio di mio padre, la stanzetta accanto al bagno, arrivavano nette le note di una tromba.
“La conosco, la conosco – disse lo studio - la sentiva sempre il signore sul giradischi.” e cominciò a canticchiare…
My funny Valentine riempiva la casa e le stanze si commuovevano. Io con loro.
“Questo ragazzo ha la grazia di Chet Baker” disse lo studio.
“Di chi?” chiese il bagno.
“Ignorante” rispose lo studio
“Era la canzone preferita dei padroni. – disse la cucina - Dei tuoi genitori, Giacomino”
“Lo so – risposi – ma i vicini si lamenteranno”
“Ci piace. Vogliamo lui. – sentenziò la camera da letto – Cacceremo chiunque venga al posto suo.”
Poi non dissero più niente.