venerdì 28 marzo 2008

I cantieri del romanzo

E' un po' lungo ma secondo me vale la pena di leggerlo.



I cantieri del romanzo
di Giacomo Sartori

1. Il romanziere e le sue materie prime

Come moltissimi altri autori contemporanei di narrativa, anch’io per ogni testo che scrivo, e naturalmente a maggior ragione per i testi lunghi, per i romanzi, utilizzo molti materiali che mi servono per attingere delle idee e delle informazioni di vario tipo. Che mi servono quindi come ‘documentazione di base’, come ‘materia prima’. Dando a questo termine un senso lato: si va da testi teorici che poi si riflettono nelle tesi di fondo/assi centrali del testo, a scritti tecnici molto specialistici legati appunto a qualche dettaglio di minore importanza (testi sul linguaggio corporale per descrivere un determinato e non ricorrente gesto di un personaggio, testi sulle armi da fuoco per descrivere un fucile che appare nelle mani di un personaggio…).
L’insieme di questi materiali comprende a seconda dei casi testi di storia, di filosofia, di psicologia e di psicanalisi, di etologia, scientifici, tecnico-specialistici, iconografici, biografici e autobiografici… (Naturalmente tra i materiali di documentazione ci sono anche quelli che provengono da internet, che io stesso come molti altri scrittori utilizzo in modo sempre più massiccio. E qui, proprio per il carattere aleatorio della navigazione, la ricostruzione dei percorsi, dell’ordine temporale e della gerarchizzazione dei vari strati di informazione, delle quali parlerò nei paragrafi seguenti, si farebbe ancora più difficile). Tralascio volutamente di includere i testi letterari, i quali beninteso possono e sono effettivamente quasi sempre usati come fonte di idee e di informazioni, o comunque come contesto di riferimento e/o come referenti di simboli e stilemi, perché questo versante della genesi di un testo è molto più assodato. Un nostro automatismo mentale, del quale sarebbe interessante rintracciare le origini, fa sì che quando consideriamo un dato autore pensiamo subito alle influenze letterarie esplicite o implicite, o anche ai dati biografici, ma molto meno, a parte qualche caso tutto sommato raro (per esempio Gadda), all’influenza degli scritti e delle fonti non letterarie.
Naturalmente certe materie prime lasciano delle tracce così evidenti che i critici e i lettori avveduti li rinvengono con relativa facilità. Sappiamo per esempio che Bergson è stato essenziale per Proust, dopo gli scacchi del Jean Santeuil e del Contre Sainte-Beuve, per arrivare al progetto della Recherche. E non possiamo non vedere Nietzsche quando leggiamo D’Annunzio. Questi sono per così dire i materiali che rimangono a vista anche dopo lo smantellamento dei cantieri di cui si è servito l’autore: gli architravi, le imponenti chiavi di volta. Molti altri materiali forse meno nobili ma altrettanto essenziali - le minutaglie utilizzate per i riempimenti e per gli isolamenti, le sabbie inglobate nelle malte fini, i pigmenti delle vernici… - sono però per la maggior parte destinati a restare nascosti nell’opera.
Questi materiali che nutrono il testo possono essere, e di solito lo sono, molto abbondanti. Per quanto mi riguarda, sono cosciente per esempio che fare a posteriori un rigoroso inventario di tutti i testi che ho utilizzato per un determinato romanzo, e soprattutto valutare poi con una accettabile approssimazione il rispettivo apporto al testo finale, sarebbe un grosso lavoro, un lavoro improbo, se non per certi versi, soprattutto a distanza di anni, impossibile. Dovrei riuscire a piazzare nel loro ordine cronologico la farraginosa e disordinata, e per molti versi ‘casuale’ (si veda più sotto) concatenazione di testi, e situarli nei loro rapporti con il testo in fieri, o per meglio dire con le varie e successive versioni del testo in fieri, in uno spazio temporale che abbraccia diversi anni (diciamo da 2-3 a 5). Naturalmente molti testi sono serviti come semplice rimando, hanno rappresentato solo una via - pur sempre necessaria, giudicando a posteriori - per arrivare ad altri testi, come quelle persone che nella nostra storia sono importanti soprattutto perché ce ne hanno fatto conoscere altre che si sono rilevate effettivamente importanti, svolgendo quindi una funzione di ‘ponte’. Sarebbe insomma un paziente lavoro da archeologo che non ho il tempo di fare e che a che dire il vero non ho mai avuto la tentazione di fare.
Sono però convinto che questa impresa certosina di ‘critica genetica’ sarebbe molto utile, e mi insegnerebbe molte cose. Sono sicuro che questa operazione di riesumazione della ‘bibliografia sommersa’ mi permetterebbe di intaccare almeno in parte l’aspetto misterioso che il testo finito ha per certi versi ai miei stessi occhi (perché proprio quel dettaglio della vicenda?, perché proprio in quel momento?, perché un cappotto rosso?…), riportandomi alla memoria dei dettagli della genesi del testo che ho finito per dimenticare io stesso. Ma andiamo con ordine.


2. Le materie prime e i cantieri

Nell’attività che chiamiamo ‘scrittura’, e per la quale mi sembra appropriata la metafora del cantiere, il romanziere lavora su delle materie prime di varia natura e varia origine, e le riordina, operando continuamente delle scelte, centinaia di scelte, migliaia, il più delle volte di tipo binario (la prima persona o la terza?, il dato tema troverà spazio o no?, il dato personaggio morirà o non morirà?, nel tal paragrafo fuma una sigaretta o non la fuma?…) o anche di tipo non binario, in relazione a codici culturali consci o solo parzialmente consci (ad es. il posizionamento morale di un personaggio, le posizioni corporali…). Il processo mentale corrispondente all’attività che chiamiamo scrittura consiste principalmente in una organizzazione di materiali operata mediante una successione di scelte tra varie alternative possibili. Queste scelte sono naturalmente in rapporto con i testi che accompagnano e alimentano la scrittura, dai materiali cioè che alimentano il cantiere.
Se, tanto per intenderci, voglio descrivere un coltivatore dell’età del bronzo nella regione che corrisponde all’attuale Carelia, argomento sul quale supponiamo che non sappia nulla prima di documentarmi, i caratteri del mio contadino protocareliano deriveranno esclusivamente (anche se certo passati al setaccio dal mio buon senso, della mia ‘conoscenza generica dell’uomo’…) dalla mia documentazione ad hoc (faccio volutamente astrazione dal filtro costituito dalla cultura letteraria). Spesso invece l’apporto dei testi di appoggio è meno assoluto, perché si innesta su un sapere pregresso. Se per esempio devo descrivere un milanese contemporaneo nevrotico, i testi sulla nevrosi e sui maschi nevrotici che consulto serviranno a integrare le mie conoscenze e letture precedenti e la mia esperienza di vita (e naturalmente il ricordo della miriade di personaggi nevrotici della letteratura da me conosciuta; ma, ripeto, sto concentrando l’attenzione sui dati non letterari). E se descrivo un abitante di una galassia che si chiama BW-C2y, mi rifarà per quel che mi potrà servire, alle esperienze dei viaggi spaziali, a quello che si conosce del cosmo e della sua origine, all’ingegneria genetica e all’intelligenza artificiale, e via dicendo. Ma, è questo che mi preme sottolineare, qualche elemento più o meno significativo dei testi consultati migrerà pur sempre nel testo letterario.
Potremmo ipotizzare, come mi sembra si faccia comunemente, che questi materiali abbiano una pura funzione di ‘materie prime’, che vengano cioè impiegati nell’azione di scrittura senza lasciare alcuna scoria, senza modificare la percezione dello scrivente, senza esercitare alcuna influenza sulla scrittura stessa. Mi pare molto più verosimile che tra il testo letterario e le sue materie prime si instauri il più delle volte un rapporto che non si limita ai ‘contenuti’. In altre parole la scrittura, a cominciare dalle scelte lessicali e sintattiche, è condizionata in qualche modo dal lavoro di documentazione. Lo scrivente stesso non è più lo stesso, dopo essersi documentato: la sua percezione si è allargata/modificata, la sua lingua ha ricevuto degli apporti/contaminazioni.


3. L’oblio del lettore e l’oblio del romanziere

Kundera ne Il sipario ha descritto in modo molto convincente il ruolo invadente dell’oblio nella fruizione da parte del lettore di un romanzo. Oblio, ci dice Kundera, a tutti gli effetti inevitabile, vista la quantità di elementi contenuti nel testo. Oblio, si potrebbe aggiungere, in fondo necessario per ‘rafforzare’ l’effetto estetico complessivo dell’opera, prendendo le distanze dal marasma dei dettagli (qualcosa come la maestosa visione d’insieme, necessariamente lacunosa rispetto alla miriade di possibili scorci a distanza più ravvicinata, ma destinata a imprimersi per sempre nella memoria, entrando in una cattedrale). Kundera contrappone tale «oblio devastatore del lettore» a «l’indistruttibile castello dell’indimenticabile» costruito a fatica dall’autore.
Si potrebbe forse obiettare a Kundera che qualcosa di simile all’oblio del lettore si può rinvenire anche nel lavoro dello scrittore, nella scrittura stessa. In realtà già nelle fasi finali della stessa, l’autore ha dimenticato certi aspetti del testo al quale sta lavorando, ha per esempio almeno in parte dimenticato i dettagli della miriade di cantieri che stavano dietro alle singoli frasi. Ha dimenticato, se non altro, i dettagli delle impalcature che in quei cantieri sorreggevano ogni singola frase in attesa che si reggesse da sola. Nelle ultime fasi della scrittura, per quel che mi riguarda, faccio attenzione ‘all’impressione generale’, ‘vado a intuito’, ‘ascolto la musicalità’, prendendo le distanze dal lavorio senza alcun paragone più cerebrale (l’infinita sequenza di scelte alla quale ho accennato più sopra), prendendo le distanze dai testi che ho utilizzato per la documentazione, in un certo senso appunto ‘dimenticandoli’. Anzi, questo oblio nelle fasi finali della scrittura ha forse l’importante funzione di lasciare più spazio alla visione d’insieme, è forse un presupposto indispensabile per avanzare verso il testo finale. È come cioè - per restare nella metafora del cantiere - se l’autore aprisse un cantiere conclusivo che ha come finalità la ripulitura degli spazi occupati dalla miriade di cantieri precedenti, l’eliminazione dei detriti e dei materiali non utilizzati, senza preoccuparsi troppo della specificità del lavoro che è stato svolto in ciascuno di essi. Un cantiere a un livello gerarchico più alto, se si vuole esprimersi con il gergo utilizzato per le tassonomie.
Se rileggo a posteriori la versione definitiva di un mio testo, devo ammettere che moltissime delle scelte che mi sono trovato di fronte e che ho fatto (intendo: l’alternativa precisa che si è presentata alla mia mente, il corredo di motivi e di implicazioni e di significati e di simboli che accompagnava ciascuna possibilità…), proprio per il loro numero infinito, le ho dimenticate, proprio completamente dimenticate. O meglio, grazie alla dimestichezza che ho con il mio modo di scrivere, rileggendo una data frase mi rendo conto che dietro si annidano delle scelte, so benissimo che ogni parola corrisponde a scelte ben precise, e che la versione finale della frase è il risultato di una serie di passaggi via via più riusciti. E facendo uno sforzo posso in parte intuire queste scelte e queste varianti meno riuscite, riesco a ricostruirle parzialmente. Ma devo riconoscere che della maggior parte di queste decisioni ho perso la memoria, non ritrovo in me alcuna traccia di esse. Semplicemente mi sembra che il testo vada bene così com’è, che ‘scorra bene’, non sia insulso, non sia migliorabile.
Non sto dicendo che ho dimenticato tutte le scelte e tutti le versioni intermedie di quel mio testo che sto rileggendo, perché come è ovvio molte, a cominciare naturalmente da quelle che considero essere le più importanti, le ricordo nei dettagli. Ma per ricostruirne molte altre dovrei fare mente locale, e per altre ancora anche facendo mente locale non arriverei appunto a nulla. E comunque anche per molte di quelle che mi sembra di ricordare bene, farei molta fatica a ritrovare adesso il corredo di testi che le hanno determinate o comunque influenzate.
Naturalmente il fatto che lo scrittore dimentichi via-via quello che fa va contro l’idea dell’artista che abbiamo e alla quale restiamo in fondo attaccati. Quest’idea, questo mito, che si porta dietro un pertinace bagaglio romantico, presuppone che l’autore controlli ogni elemento del testo, dove questo controllo è inteso come un imperio assoluto e avulso dal tempo (senza dimensione temporale, e quindi anche successivo della conclusione della data opera, anche precedente). Quasi che nella persona (il cervello) dell’autore esistesse un quadro di comando costantemente collegato ai singoli elementi del testo (il testo definitivo), una distesa di bottoni e di cursori non destinati a invecchiare e a ossidarsi, e sempre in funzione. Come se il testo definitivo non fosse il più delle volte il risultato di una graduale azione di affinamento svolta su varianti successive. La stessa letteratura, e in particolare Proust, con le sue riflessioni sulla memoria e sulle fasi successive nell’esistenza degli individui, ma anche e soprattutto le scienze cognitive (in particolare i recenti lavori sulla ‘memoria di lavoro’ durante l’attività di scrittura), e la psicanalisi (il ruolo degli elementi e delle istanze non coscienti), ci hanno dimostrato che così non è.
Si potrebbe forse osare un parallelo con la pittura. È evidente per esempio che ogni singola pennellata di un quadro di Tiziano si può considerare essenziale per la realizzazione dell’opera finita. Evidentemente Tiziano mentre dipingeva ha sentito la necessità di quella specifica pennellata (in opposizione a un pennellata diversa, o in un altra zona della tela…) su cui fissiamo l’attenzione, considerandola appunto insostituibile, e tutte le pennellate che hanno seguito hanno tenuto conto di essa e della sua insostituibile specificità. Ma si può ragionevolmente dubitare che Tiziano alla fine del quadro (e tanto più a distanza di tempo) serbasse memoria di ogni singola pennellata, e della precisa successione delle varie pennellate. Si può più ragionevolmente ipotizzare che Tiziano si servisse a partire da un certo momento di una intuitiva ‘impressione d’insieme’ (le scienze cognitive sarebbero molto più precise). Quindi Tiziano è sì il ‘controllore’ di ogni millimetro del suo quadro, e di ogni pennellata, ma questa sua capacità di controllo non può essere intesa come una facoltà fuori dal tempo, destinata a sussistere ab aeternum, ma come un potere legato alla successione temporale del lavoro mentale - con la sua precisa dinamica - che ha portato alla realizzazione del quadro in questione.


4. Le mie materie prime

Per ogni mio romanzo ho un’idea abbastanza precisa di come può essere suddivisa o classificata la mole di testi di documentazione che ho utilizzato. In parte sono libri che ho comprato e che quindi conservo: molti scaffali della mia biblioteca sono legati a una specifica tematica legata a un dato testo (ad es. i testi storici sul fascismo utilizzati per Anatomia della battaglia). Sono nati da un’accumulazione utilitaristica ma anche casuale (man mano che mi serviva approfondire un dato aspetto, e senza alcuna ambizione di esaustività), una disposizione che per pigrizia, o forse anche per attaccamento a quella casualità che rispecchia pur sempre in un certo senso l’essenza del testo finale, non ho più sconvolto. Altri testi invece li ho presi nelle biblioteche, o me li hanno prestati, ma hanno lasciato delle tracce ben riconoscibili (nel testo stesso, o nelle ‘note scritte di appoggio’, che conservo, al testo). Molti altri testi non hanno invece ahimé lasciato traccia alcuna, e mi sarebbe invece più problematico rintracciarli. Questo però non mi impedisce di poter individuare senza difficoltà, come dicevo, le grosse categorie di documenti che hanno contribuito a un dato testo testo.
Quale che sia la natura dei documenti di cui mi servo, nel lavoro di ricerca che faccio per ogni mio testo posso riconoscere, ormai lo so anche prima di cominciare, due fasi ben distinte. La prima fase è quella che precede l’inizio della scrittura vera e propria. Ogni volta che comincio a lavorare a un nuovo testo - quando cioè qualcosa dentro di me ha deciso che il dato abbozzo mentale è promettente e adatto, e farà del suo meglio per diventare un romanzo - inizio a documentarmi. La documentazione mi sembra un aspetto fondamentale e imprescindibile del lavoro di ‘scrittura’ (dove appunto la ‘scrittura’ comprende quindi anche le attività a monte, alla scrittura vera e propria).
Questa esigenza di documentarmi è forse dovuta al fatto che sono un autodidatta, e che non ho fatto studi superiori umanistici-letterari. Probabilmente è una forma di sindrome dell’autodidatta, quel complesso di chi non riesce a liberarsi della sensazione di non sapere niente di niente. Ma certo in parte è anche una deformazione professionale dovuta alla mia formazione scientifica e al mio lavoro scientifico. Un articolo scientifico inizia sempre con un cappello che introduce la problematica, e che rimanda alla bibliografia più significativa in materia. E poi integra le conoscenze acquisite, o le mette alla prova, o anche, come ha teorizzato Kuhn, le sovverte radicalmente. Ma insomma non perde mai di vista il contesto della comunità che ha lavorato su quella stessa problematica.
Ebbene, grazie a questa deformazione io prima di iniziare a scrivere sento sempre il bisogno di documentarmi il meglio possibile. Se parlo di un assassino, vado a vedere cosa si dice sugli assassini, se parlo di un assassino psicolabile, cosa dicono i testi di psicopatologia. Se descrivo un cielo, o un ghiacciaio, o dato albero, vado a vedere se trovo qualcosa sui cieli, sui ghiacciai, sul quel dato albero. Non per dare poi al mio testo una verosimiglianza realistica, intendiamoci bene, ma come mia conoscenza di base. L’albero nel mio testo potrà risultare rosso scarlatto (spesso succede proprio così!), o azzurro, ma io so che nella realtà è invece verde pallido e in autunno diventa giallo oro.
So che molti autori lavorano come io lavoro, e sono cosciente che in quanto sto dicendo non c’è nulla di originale. Mi stupisce però che molti altri scrittori utilizzino, per quanto si può capire, altri procedimenti, che astraggono completamente dai saperi specialistici. A mio parere si può dire per esempio, e si potrebbero portare molte prove, che la psicanalisi non è molto presente nella narrativa italiana contemporanea. Molti romanzieri italiani contemporanei mostrano di essere completamente ignoranti in materia, e non sembrano preoccuparsene. È sufficiente un’infarinatura di base di psicanalisi per rendersi conto che i loro personaggi e le loro storie non stanno proprio in piedi dal punto di vista dei meccanismi che operano nella psiche. Devo confessare che trovo questa situazione piuttosto imbarazzante. Non tanto per la mancanza di coerenza psicanalitica in sé, che non è certo un elemento necessario, ma appunto per il fatto che questa incoerenza non sembra essere in alcun modo essere voluta, non sembra essere cosciente di se stessa, con un conseguente inevitabile sconfinamento nei clichè (il più delle volte inconsci) presenti nella cultura italiana.


5. I cantieri del romanzo

L’arte del romanzo può in effetti essere vista come un vasto territorio di sperimentazione, un vasto cantiere, dove convergono gli strumenti specialistici provenienti dalle discipline umanistiche e dalla scienza. O meglio, il romanzo si spinge nelle zone d’ombra non ancora esplorate, spesso anticipando (in particolare nel campo della psicologia, o anche in quello scientifico), crea dei corti circuiti tra approcci diversi, alligna sulle contraddizioni che li oppongono. Questo rapporto è di solito più facilmente rinvenibile nelle narrazioni di tipo mimetico o realista. Ma anche le narrazioni più lontane dalla mimesi (il Beckett romanziere, o Cortázar, o la Ortese, per intenderci) a ben guardare non prescindono mai - e sempre astraendo dalle influenze più strettamente letterarie - da un ben maturato posizionamento rispetto a tali saperi. Calvino, con la sua curiosità intellettuale e il continuo sforzo di capire cosa succedeva in discipline anche molto lontane dalla sua formazione, e di tradurre le evoluzioni di queste nella propria poetica (o comunque di adattare quest’ultima alle prime), è per me un ottimo esempio (indipendentemente dall’affinità che si può provare o meno per l’universo delle sue opere) della necessità e della fecondità di questo confronto. Ma si potrebbero decine di altri nomi, perché gran parte dei grandi romanzieri dell’ottocento e del novecento mi sembrano avere in comune - che propendano verso il dominio della ‘realtà’ o verso quello della ‘finzione’ -* proprio questa ‘capacità di sintesi’, che a volte diventa ‘capacità di anticipazione’, riguardo a saperi che esulano dal campo letterario.
Al polo opposto vedo il romanzo popolare, e la sua versione più recente, il romanzo midcult. Questi generi potrebbero essere definiti, sempre cercando di allargare il campo di analisi rispetto a un’ottica prettamente letteraria, come delle forme romanzesche che accettano acriticamente (in maggiore o minore misura) i saperi consolidati, che rinunciano a sintetizzarli/incrociarli e a sperimentare nuovi spazi, che percorrono vie già tracciate e quindi obsolete. Che traggono le loro istanze, invece che da un’elaborazione originale, dalla cultura media, dallo spirito del tempo.
Sia il romanzo nella sua espressione più ambiziosa, che il romanzo popolare o midcult, di fatto sono in inevitabile dialogo con i saperi dell’epoca che li ha visti nascere. La differenza è che nei secondi il dialogo è meno intelligente, tende in maggiore o minore misura, e consciamente o inconsciamente, all’accettazione acritica, alla parodia involontaria. Prendiamo come esempio di romanzo contemporaneo il mio Anatomia della battaglia (un figlio con un passato di terrorista di sinistra che assiste alla morte del padre che è stato fascista) e poniamoci il problema se vale qualcosa o meno (naturalmente non sta a me rispondere). È evidente che gli stessi elementi dell’intreccio sono l’oggetto anche di numerose discipline, e di ricchi filoni giornalistici, che si occupano, con approcci diversi, di quelle stesse tematiche. E se scendiamo ancora più nel dettaglio, i singoli attributi dei due personaggi (a cominciare dalla simbologia dei singoli ingredienti dell’aspetto somatico, quali il colore dei capelli e degli occhi, e dal linguaggio del corpo…) sono repertoriati e analizzati da fiorenti filoni specialistici. E naturalmente la lingua stessa, ed è forse il punto più importante, potrebbe portarsi dietro la zavorra delle lingue e dei gerghi dei saperi specialistici. Ebbene, Anatomia della battaglia può valere qualcosa solo se aggiunge qualcosa a questi saperi (se li giustappone, li mette in corto circuito, li stravolge, ne mostra i limiti e/o le recondite implicazioni, li smaschera, li sbeffeggia…), e se la lingua è diversa, è originale.
L’idea che abbiamo della letteratura, anch’essa intrisa di influenze tardosettecentesche e romantiche, nonostante la parentesi strutturalista, tende a farci considerare il testo letterario come un oggetto unico e insostituibile, separato dai suoi omologhi, e frutto della fantasia, o del genio, del dato autore, e in dialogo in primo luogo con la tradizione letteraria che lo precede. Faremmo forse meglio a prestare più attenzione da una parte a tutti gli elementi - provenienti dalle più diverse discipline o comunque in dialogo, magari per via anche molto traverse, con esse - che sono sottesi nel testo, e dall’altra ai punti in comune, alle risposte a stesse difficoltà e/o problemi in relazione a questi stessi rami del sapere. Tali relazioni, più facili appunto da cogliere negli autori che hanno posto al centro della loro opera “la realtà” e/o la storia, sono in realtà presenti anche negli scrittori che hanno imboccato le via della “finzione”, e/o del fantastico. Siamo per esempio abituati a considerare il Don Quijote opera di finzione per eccellenza, intendendo per finzione il libero e leggiadro corso dell’immaginazione, e così facendo stravolgiamo completamente la poetica di Cervantes, elaborata a partire da e in rapporto strettissimo con la riflessione filosofica e estetica della seconda metà del cinquecento spagnolo (in particolare l’empirismo di Vives), e che non prevede in alcun modo un occultamento/deformazione della storia.* E anzi, proprio in questo nuovo spazio che non è né storia né poesia (che è nello stesso tempo storia e poesia), con il Don Quijote il romanzo imbocca la strada maestra che percorrerà nei secoli seguenti.


6. La mia farraginosa ricerca di materie prime

Quando comincio a scrivere, a scrivere nel vero senso della parola, quando cioè le macchine escavatrici nei cantieri del mio testo cominciano a incidere i segni dei loro denti nella terra, mi accorgo di solito che la documentazione che ho accumulato e consultato non mi serve a niente. O meglio, mi accorgo che questa costituisce una base di fondo, una base certo indispensabile, ma incompletissima e troppo poco approfondita. Quello che mi serve in quel momento, per portare avanti la storia che si sta delineando nella mia testa, per alimentare i miei cantieri, è ben altro. Mi accorgo con spavento che i miei cantieri sono bloccati, che non posso più scrivere una linea, se non trovo subito i documenti che mi servono.
E allora comincia un’angosciata e farraginosa ricerca di documenti, una lotta spossante, che affianca la scrittura vera e propria, che dura praticamente fino a quando il testo non è finito (solo nelle ultimissime fasi le cose migliorano un poco). In questa ricerca mi sembra sempre di essere in ritardo, di non avere abbastanza tempo, di essere irrimediabilmente impreparato. Mi sembra di documentarmi male e con superficialità, mi sembra che avrei dovuto cominciare prima, studiare e riflettere con molta più serietà prima di cominciare a scrivere. Mi sembra che la mia scrittura sarebbe nutrita in modo molto più sostanzioso, che sarebbe molto migliore, se mi fossi preso per tempo, se invece di correre casualmente da un testo all’altro avessi fatto le cose con un solido metodo. Mi sembra di essere un avvoltoio che pasteggia un po’ qui e un po’ lì, di essere un impostore, di fare un uso improprio dei materiali che saccheggio senza conoscerli a fondo.
La realtà è che non avrei potuto prepararmi prima, per il semplice fatto che - come mi succede sempre - non avevo la minima idea di dove il testo sarebbe andato a parare. In Anatomia della battaglia, per esempio, accingendomi alla descrizione dell’agonia di mio padre, che inizialmente doveva essere il solo e unico soggetto del testo, è saltato fuori il fatto che mio padre era stato fascista, e repubblichino. E quindi mi sono ritrovato a studiare in quattro e quattr’otto la storia del fascismo e della cultura fascista, e della Repubblica di Salò, delle quali avevo solo qualche vaga e superficiale nozione. Decine di testi storici di base, di testi storici più specifici, di saggi, di lavori vari di psicologia e di psicanalisi che mi permettessero di capire meglio l’estrema destra, di scritti letterari, di scritti autobiografici e di diari. Nel frattempo però nel testo ero saltato fuori anch’io, che nei piani iniziali non ero minimamente previsto, e il mio coinvolgimento nella sinistra extraparlamentare. E quindi ho cominciato a documentarmi anche sugli anni settanta, che conoscevo quasi solo esclusivamente attraverso la mia esperienza personale e tramite la narrativa.
Poi però, grazie al rapporto tra questo mio padre e questo io, che ormai non erano più mio padre e io, ma due personaggi letterari, i quali per certi versi facevano un po’ quello che volevano loro, è venuto fuori il legame molto stretto tra il periodo finale del fascismo e gli anni settanta. Questa relazione, che all’inizio era solo una tenue intuizione, come un minuscolo frammento archeologico saltato fuori mentre una rumorosa macchina scavava nel cantiere, grazie alle affannose ricerche di documenti di cui sopra, prendeva sempre più corpo e sostanza, diventava una certezza cerebrale, diventava soprattutto solido e valido (ai miei occhi) testo scritto. Nuovi frammenti della preziosa (ai miei occhi) statua andavano via-via completandosi uno con l’altro, e il tutto assurgeva allo statuto di tesi centrale - naturalmente incastonata e in dialogo con altre tesi - del romanzo.
Ma appunto la frustrata (in quanto non adeguatamente nutrita, ai miei occhi) scrittura e la farraginosa documentazione procedevano di pari passo, nel senso che i sempre nuovi dubbi che nascevano nella prima trovavano risposta nella seconda, e che i preziosi elementi che la seconda mi forniva davano sempre nuova prolifica materia alla prima. Io avrei voluto che la documentazione precedesse la scrittura, e invece nella realtà dei fatti le due attività convivevano e si nutrivano a vicenda, come una litigiosa ma indissolubile vecchia e insoddisfatta coppia. La prima sarebbe andata incontro a inarrestabile deperimento, senza la seconda, e la seconda si sarebbe miseramente arenata, senza la prima.
L’esempio che ho fatto illustra qualcosa che mi succede appunto sempre, anche quando i temi che affronto mi sono ben più vicini del fascismo e della storia italiana del novecento, quando per così dire mi muovo in acque amiche. Tale impasse si potrebbe riassumere in questo modo: i miei testi letterari si nutrono di documenti extra-letterari, non possono vedere la luce senza tale nutrimento, ma questo apporto di materia prima, di carattere estremamente specifico e non prevedibile a priori, può essere fornito solo da una ricerca di documenti che si svolge parallelamente alla scrittura vera e propria, che la segue passo a passo, mantenendo dei rapporti strettissimi con essa, asservendosi alle sue esigenze. E tale ricorso a fonti specialistiche ha più i caratteri di un saccheggio (non mira alla completezza, ed è dettato in fondo dall’intuizione, concentrandosi utiliristicamente sugli aspetti che possono essere più benefici per il testo, tralasciandone altri che da un punto di vista oggettivo - restando cioè nella logica della disciplina - sono più importanti e più essenziali), che di uno studio sistematico, non ha in fondo niente ha che fare con quest’ultimo.
Per molto tempo ho cercato di correggermi, di far precedere la documentazione alla scrittura, e di essere più rigoroso nella prima. Poi ho capito che è inevitabile che le due attività siano inseparabili, e che anche la ricerca dei documenti fa parte della scrittura. Ho capito che la ricerca dei documenti che mi servono per scrivere i miei testi non è un’attività freddamente cerebrale che segue la logica e la dinamica dell’apprendimento accademico, non mira a una asettica esaustività. È quindi qualcosa di molto diverso dalle mie ricerche bibliografiche quando mi accingo a scrivere un saggio scientifico, o dall’attività di uno storico che raccoglie il materiale per scrivere un saggio storico. È dettata passo a passo dalla scrittura, ha senso solo come supporto ‘in presa diretta’ a quest’ultima. La sua farraginosità e la sua incompletezza non sono quindi dei caratteri accessori e evitabili, dovuti al mio modo disordinato di lavorare, ma costituiscono un suo attributo costitutivo e essenziale, che riflette l’esigenza di adattarsi all’aleatorietà e alla natura intuitiva e imprevedibile (‘creativa’) della scrittura.
Mi sono rassegnato, e devo confessare che al contempo ho constatato che molti scrittori che non apprezzo fanno precedere la fase della documentazione a quella della scrittura vera e propria, e fanno in modo che la prima piloti la seconda. Il coltissimo Umberto Eco può secondo me essere preso come un esempio paradigmatico di questo modo di procedere nel quale la documentazione precede e domina incontrastata sulla scrittura. Ne derivano dei testi nei quali sono reperibili, se la cultura del lettore lo permette, tutti gli elementi ricavati dalle fonti utilizzate, dove tutto rimane gelidamente e desolatamente cerebrale, dove la lingua non ha alcun interesse, dove l’unica modalità di fruizione possibile sembra essere appunto il rinvenimento dei rimandi e la valutazione del grado di difficoltà di tale operazione. Dove non c’è - nonostante l’autore si rifaccia esplicitamente e si consideri un discendente di grandi scrittori del passato - nulla di interessante, nulla di nuovo.


7. Le materie prime di Flaubert

Mi ha sempre colpito lo spossante e maniacale accanimento di Flaubert nel procacciarsi i documenti e le informazioni su cui basava i suoi testi, per verificare ogni infimo dettaglio. Mi è sempre sembrato che la purezza cristallina della frase di Flaubert, la sua solida e elegantissima leggerezza, nulla avesse a che fare con la testarda e in fondo assai prosaica ricerca documentaria che ci stava dietro. Mi sembrava che il genio smisurato di Flaubert avrebbe benissimo potuto produrre quelle stesse frasi perfette anche permettendosi un grado più o meno grande di approssimazione per quanto riguarda la veridicità dei singoli e in fondo non sempre significativi (agli occhi del lettore del ventunesimo secolo che sono io) dettagli, anche se Flaubert se li fosse inventati di sana pianta. Se cioè avesse privilegiato la finzione rispetto alla documentazione.
Ma probabilmente, alla luce della mia stessa esperienza di scrittura, e delle considerazioni sopra esposte, mi sbagliavo, probabilmente anche quel passaggio era fondamentale, anche in quell’aspetto della scrittura Flaubert aveva bisogno del rigore che sfoderava nell’elaborazione dell’infinità di successive varianti per le quali come sappiamo passavano i suoi testi. Ora constato che anche per il gradissimo Flaubert la documentazione non precedeva la scrittura del testo, ma andava di pari passo, seguiva le necessità di quest’ultima, e aveva come unico fine l’alimentazione della scrittura stessa, senza alcuna velleità dominatrice. Per lui il testo romanzesco era un dialogo aperto con i testi romanzeschi che lo precedevano, ma anche con i saperi, anche tecnici, anche prosaici, della sua epoca.
Nella nozione corrente di scrittura, che è appunto irrimediabilmente marezzata di venature romantiche, noi comprendiamo senza sforzo alcuno le esperienze di vita dello scrivente (come del resto è evidente quando diciamo «i poeti maledetti», «gli scapigliati», «la beat generation», «lo scrittore praghese»…), ma facciamo molta più fatica a includere lo sforzo bruto, il lavoro di Flaubert per procurarsi le proprie materie prime e per organizzarle. Ci sembra che questa attività di bassa lega e poco nobile nulla abbia a che fare con la sua capacità di ammaestrare e rendere docili le parole e le frasi, rendendo ognuna di queste ultime una sequenza di impareggiabili versi. Ci appare come un’inevitabile bisogna, una condizione preliminare per l’apertura dei suoi magici cantieri. Quando invece costituisce forse l’essenza, o comunque il minimo comune denominatore - anche se spesso è seppellito nel testo, e non lascia trasparire che qualche labile traccia - di quella costellazione di forme letterarie che chiamiamo romanzo.

lunedì 10 marzo 2008

Da Subaugusta a ponte mammolo


Non ci ho pensato mentre scendevo...Cos'è adesso questa sensazione di morticella in questo sotterraneo ctonio che si chiama metro...perchè non ci ho pensato mentre scendevo...
Dovevo fare in fretta...guadagnare venti minuti di vita a casa...e li pago qui...in questo flusso di carne che s'affonda in terra...la luce, la penombra, il nero, il neon. Sale una musica lontana onnipresente, fosse il tango più selvaggio, lo perdo dalle orecchie, mi sfugge come acqua, nera ...Occhio e mente si concentrano sullo stretto, chiuso, serrato, fermo. Sento di perdermi, svanire.
Allora scatta un cobra dentro che cinghia. Una iniezione di forza interna m'attraversa. Lo scatto di reazione a questo soffocare, seppure irresisitibile, lo rivolgo verso di me. Non devo pensare alla fuga...devo...fuga...non pensare alla fuga. Alla fuga. Adesso è panico silenzioso, rimango immobile come un'atomo, tempo, spazio, energia in un punto compresso, mentre il tempo stesso mi dà la forza di resistere.
Esco dal tunnel dentro me dopo infinito viaggio, non è passato che un secondo, pensando che ho già resistito e posso farcela ancora. Mi guardo allora intorno, più sicuro, ma smarrito dal ritorno fuori. Penso ancora: fuga. Non pensare; è tutto così normale, vedi gli altri come fanno? Vedi tutti gli altri bravi bambini, Ecco, ecco, m'aggrappo ad un video, così domestico, così familiare. Non superare la linea gialla. Ma allora questa fottuta fretta, questo essere spinti da una massa di zombie senza occhi, che non guarda...?
Arriva l'aria finta spinta dallo scatolo di metallo, l'alito già respirato del tubo mi sveglia. Si entra per inerzia nel suo ventre, un pò spinti da un flusso, un pò scavalcati da singoli rivoli di fretta che s'insinuano, prima di lasciare scendere,ansiosi di vincere anche qui. Si resta in piedi aggrappati al ferro, a pugno chiuso. Il nero dei vetri scorre come specchio e consente di avere occhi a tutta la metro, la varietà degli uomini che ci fa tali, che ci salva. Per fortuna uno zingaro arriva con la fisarmonica.Viene dal vagone precedente saltando da uno all'altro ogni fermata. Ha odore animale. Suona senza sostenersi e ti chiedi come fa a restare sospeso... Ha trovato una melodia eterna e la suona senza tecnica, ma come se il sudore e l'abitudine della ripetizione l'avessero levigata. Gioca con le gambe come un surfista di metro, il corpo indietro, anni d'esperienza, il bagatto, l'infinita adattabilità dell'animale uomo quando ha fame..."Macchè fame, quando è pigro e non vuole fare niente" dice uno accanto; quando non si vuole obbligare e diventare Sisifo...
Eppure cade! La macchina l'ha fottuto, una frenata più imprevista del previsto. Ha rotolato per il lercio pavimento, come un cencio: un sorriso si sparge sui volti tirati e pronti a non dare, si rompe l'indifferenza. Scatta una romanità nascosta in un anvedi! E non è più odiato parassita, ma sfigato clown del mercoledì e il caso fa aprire mani e menti. Il tevere frattanto rompe il tubo infero. il fiume un tempo biondo e adesso tinto del piombo cinereo del cielo. Un ponte lega cielo e terra e risorge alla luce la metro: irrompe un sole autunnale come l'acqua metallica. Un binario s'interna nel quartiere, squinternato s'assesta, assetto malridotto. Dura pochi secondi e poi scendo alla prossima. Adesso è tutto diverso: è l'uscita dal lunapark. Si esce. All'aria.

venerdì 7 marzo 2008

Fisio-Logica










Non so se Francesco fosse tranquillo o preso da qualche ordinaria preoccupazione quando il tonfo secco che arrivava dal balcone della cucina lo fece sobbalzare dalla sedia davanti al computer. Nonostante la televisione ad alto volume l’aveva sentito distintamente. Secco; incredibilmente simile al rumore che tanti anni prima il ragazzo che tutte le mattine suonava la chitarra elettrica aveva fatto precipitando dal quinto piano accanto alla finestra dell’aula in cui Francesco sedeva annoiato.
Un altro suicida? Proprio sul suo balcone? Francesco ebbe una rapida espressione stizzita ma in realtà era impaurito. A passo veloce si avvicinò alla finestra, poi lentamente la aprì. L’afa lo attraversò simile allo spirito caldo di un condannato a morte ed andò subito ad amoreggiare con il fresco secco dell’aria condizionata.
Il balcone era inondato di sangue e una gigantesca massa viva pulsava lentamente. Era alta quanto Francesco ma molto, molto più grande. Sembrava, anzi, era un cuore. Il cuore di un dinosauro, pensò Francesco.
Chiamare la polizia?
Accorrette c’è un cuore gigante che agonizza sul mio balcone.
Improponibile. Gli sbirri non capiscono manco la dinamica di un tamponamento a semaforo rosso. Era un lavoro per l’Uomo Ragno o Batman, al limite volendo risparmiare anche per Dylan Dog.

- Cazzo aiutami…

Francesco si guardò attorno. Non poteva essere vero.

- Fa’ qualcosa… questa situazione è insostenibile.

Il cuore si era messo pure a parlare adesso.

- Ti muovi? - disse
- …e che devo fare? – balbettò Francesco
- Non lo so ma… fai qualcosa. Tirami fuori da ‘sto casino.
- Io? …ma se non ho capito ancora cos’è successo…
- Non dirlo a me – ribattè il cuore arrogante

Francesco lo fece rotolare faticosamente dentro casa e chiuse la finestra.

- Va già meglio – disse il cuore – almeno qui c’è l’aria condizionata. Stronzo.
- Ah pure stronzo adesso?
- Eh sì… lo ribadisco. Stronzo. Guarda cos’hai combinato?

Francesco cominciava ad innervosirsi. Già la situazione era paradossale e poi, ammesso che ne fosse venuto fuori con un’idea geniale, a chi l’avrebbe potuto raccontare? Chi ci avrebbe creduto senza prove… …la macchina fotografica.
Di corsa l’andò a prendere dalla cassettiera del salone. E poi …click…

- Eh si. Adesso lo stronzo vuole pure un trofeo… sai dove te la devi mettere quella foto di merda?
- Tu non dovresti parlare – rispose secco Francesco – perché i cuori non parlano, e, a parte questo, il tuo non è proprio il lessico adatto ad un cuore. E che è… ?
- Ma sentilo – lo canzonò il cuore – e che dovrei dire? Che fai tu luna in ciel dimmi che fai? La luna si fa i cazzi suoi. Fa il suo mestiere se nessuno la disturba… anch’io avrei preferito fare bum bum tutta la vita… guarda… non mi far parlare va….
- No. No. Parla… vediamo che c’hai da dire? Ti ho pure soccorso e mi hai sporcato tutto il pavimento di sangue… mi dici che c’entro io con i problemi tuoi?

Il cuore pulsava sempre più velocemente. Si stava innervosendo, era chiaro. Ma Francesco, perso lo stupore iniziale era così infastidito da quel cuore ingrato e pure cafone che non badava più neanche all’assurdità di essere nella sua camera a fare lite con quel mostro.

- Ah devo parlare? E se devo parlare parlo. Io non guardo in faccia a nessuno. Da dove dobbiamo cominciare?
- Comincia da dove vuoi… tanto io c’ho la coscienza a posto.
- Meh allora siediti che la storia è lunga. Mica finiamo per mò. Lo tieni un pomeriggio sano sano?
- Vai parla… tanto non stavo facendo niente d’importante…
- Ah. Niente d’importante eh? Non stavi scrivendo un e-mail, tu?

Come faceva a saperlo? Una e-mail lunga, sofferta che forse non avrebbe mai spedito. Francesco minimizzò

- E allora? Si! Stavo scrivendo una e-mail…
- Per la tipa che sta a Pisa e che non vedrai mai più e che non ti pensa nemmeno.
- Saranno anche cazzi miei – il cuore aveva ragione e Francesco cominciava ad essere incazzato nero.
- No, se permetti sono pure e soprattutto cazzi miei. Come quando alle medie ti sei innamorato di quella più bella di tutte che se la faceva solo coi tipi più grandi. Che cosa pretendevi? Ma per piacere. Non esistevi per lei. E poi la ragazzina della spiaggia; ne vogliamo parlare? Ti prendeva solo in giro… come hai fatto a non capirlo? E la commessa della libreria che ti filava solo per farti spendere soldi, e la cameriera della pizzeria?… stessa storia. E io lì che facevo veleno. E pensavo… ma allora questo è proprio coglione …e vogliamo parlarne o no della figlia di Zia Menuccia? Cazzo, Francesco, tua cugina.
- Ma… tu… -
- Eh… ma io… ma io già non ne potevo più da un casino di tempo. Perché, quando ti sei trovato la fidanzata a Gioia del Colle e facevi avanti e dietro con la macchina e lei non si faceva trovare? Pensi che per me sia stato facile. Oh. Poi uno arriva un momento che non ce la fa più.
- Senti ma…
- Noooooo… mò ho cominciato a parlare e mi fai parlare…. Comodo così. Noooo… mi devi stare a sentire adesso e ti devi stare pure zitto…

Francesco indietreggiò e si sedette sul letto. Stava sudando. Sentiva battere il cuore dentro e, forse questa era la sua unica consolazione. Almeno un cuore in petto ce l’aveva ancora, soltanto che batteva perfettamente in sincrono con quel mostro che aveva davanti e che ormai era un fiume in piena di sangue e di parole…

- …e quella cretinetta mezza punkabbestia che passava le serate buttata a terra col cane? Meh… quello è stato il massimo. Ti sei innamorato a botte di tavernello e a me… doppio danno anzi, triplo con tutte le canne e le sigarette che vi facevate. Oooooh che sono fatto di carne e muscoli pure io! E come ti piaceva stare male…. mado’ povero figlio incompreso ti buttavi sul divano e piangevi… per chi poi? …per un paio di occhioni dolci …ma basta. E che combini adesso… vogliamo parlarne? …pure di quest’altra ti dovevi innamorare. Si, va beh, lo ammetto ha fascino, è carina, sarebbe perfetta se non fosse fidanzata. Tu non sei uno che ha i coglioni di far innamorare una già fidanzata… porcaccia miseria… impara ad accontentarti.

L’enorme cuore zittì e riprese a battere più regolarmente in sincrono, naturalmente, con quello di Francesco. Passarono alcuni minuti di silenzio. Il sangue cominciava ad impregnare le tende, il lenzuolo del letto, le scarpe di tela e i pantaloni di Francesco. Il ragazzo si alzò, fece qualche passo, poi si girò verso il cuore. Lo guardò fisso. Adesso era una questione di principio e, soprattutto di orgoglio. Alzò il dito a sottolineare retoricamente l’importanza di ciò che stava per dire, poi con calma…

- …e allora? Come la mettiamo? Pretendi che io faccia solo ciò che è razionale? Tu dovresti saperlo meglio di me come funzionano queste cose… io le ho amate tutte e non mi è mai importato di essere ricambiato. Anche per un sola settimana, per una sola sera, ma le ho amate… fammi un piacere: torna da dove sei venuto e fai il tuo mestiere che ci penso io a come innamorarmi… che ti credi? …io non sono come dici tu… io ci penso alle cose… lo so usare il cervello io…

…un altro tonfo sul balcone, improvviso… poi una voce flebile….

- …aiuto, …aiuto!