mercoledì 26 novembre 2008

Basta


Oggi, ancora una volta, ho i chiodi nella testa.
Si, ho un paio di chiodi che sono stati conficcati esattamente sul sopracciglio destro. Dall'alto verso il basso cosicché anche l'occhio in parte ne risenta.

Ahi!

martedì 23 settembre 2008

Quanta bellezza.

Il Gigante e il Mago
il nuovo video di Capossela.

Mamma mia che bellezza


giovedì 4 settembre 2008

Presentazioni

Una delle caratteristiche letterarie proprie dei blog è che si leggono al contrario. L'ordine naturale dell'informazione vuole le novità in prima pagina, la risposta prima della domanda, l'effetto prima della causa.
Stamattina ho ripercorso il blog a ritroso fino al primo post in cui mi chiedevo dove fossero tutti quanti. A distanza di otto mesi siamo un bel gruppo e questo mi fa un enorme piacere.

Questo post, oltre che a tirare le somme dei primi otto mesi di vita del blog serve a presentare un nuovo collaboratore che sono molto onorato di avere tra noi. Il suo nome è Francesco Marocco.

Francesco è un ottimo scrittore autore, tra le altre cose, di una raccolta di racconti edito per i tipi de "La Meridiana" intitolato "L'estate in cui il bari comprò Joao Paolo" (scheda unilibro). Chi tra noi ha militato in "SenzaEditore" ricorderà che la scrittura di Francesco è fresca, efficace e i suoi contenuti sempre sorprendenti.
Perciò non posso che essere contento che abbia accettato il nostro invito.


giovedì 14 agosto 2008

La pancia

Ero a casa di amici e fra un nulla e l'altro che accadeva, si è iniziato a parlare della monotonia e del'abitudine, di ciò che ogni giorno si ripete ...
mi guardavo intorno, un gatto sembrava impazzito, la mia lei annoiata, tutti in procinto di sbattere la testa al muro, quando i miei occhi sono finiti sulla pancia di Giuseppe, pancia appena nata e già piena...e così emozionato ho scritto

LA PANCIA

Si parla e si parla e così bastardi
i miei occhi si adagiano sulla sua pancia-
lei conserva e mantiene intatte
le abitudini di noi mosche sul giorno
io da buon anoressico
vomito

Nico



lunedì 14 luglio 2008

sul ritmo e il rumore

Eccovi una cosa su cui sto riflettendo nello stile della scrittura.

Regge ancora con gli sviluppi di altri mezzi, è un discorso ancora da affrontare?

Italo Calvino, affronta il tema della “rapidità” nella seconda delle Lezioni americane - Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti, 1988):

La corsa del desiderio verso un oggetto che non esiste, un’assenza, una mancanza, simboleggiata dal cerchio vuoto dell’anello, è data più dal ritmo del racconto che dai fatti narrati.

Per Calvino, in un racconto, la corsa altalenante del desiderio crea nessi verso un oggetto, incantato, fatato, sempre magico ed è data più dal ritmo della narrazione che dall’oggetto in sé.

La rapidità della successione dei fatti narrati dà un senso di ineluttabilità e forma attorno all’oggetto magico (che è il motore della vicenda secondo Propp) un campo di forze che è il campo del racconto.

Italo Calvino cita il Leopardi dello Zibaldone :

La rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini o sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno con la rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L’eccitamento d’idee simultanee può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ecc. (3 nov. 1821; in Italo Calvino Lezioni americane).

L’esperienza di Leopardi sulla velocità fisica, di sensazioni sublimi, precede la riflessione sulla velocità di scrittura e di stile:

La velocità, per esempio, de’cavalli o veduta o sperimentata, cioè quando essi vi trasporta […] è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica. (27 ott. 1821; in Italo Calvino Lezioni americane).

Il tema è quello del rapporto tra velocità fisica e velocità mentale. Il cavallo come emblema della velocità, anche mentale, marca tutta la storia della letteratura, preannunciando la problematica del nostro orizzonte tecnologico. La novella stessa è un cavallo: un mezzo di trasporto con una sua andatura variabile secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità cui si riferiscono Leopardi e Calvino è una velocità mentale.

Calvino ricorda come anche in Galileo Galilei il cavallo è spesso metaforicamente inteso come immagine di movimento, come forma della complessità e bellezza della natura e che scatena l’immaginazione nell’identificazione del ragionamento con la corsa: il discorrere è come il correre. Quest’affermazione è il piano stilistico di Galileo, sia metodo di pensiero che di scrittura: la rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi, sono per Galileo qualità decisive del pensar bene. Nei vari accostamenti di venti piccoli caratteri, cioè nella combinatoria alfabetica, Galileo vedeva non solo lo strumento insuperabile della comunicazione tra persone lontane nello spazio e nel tempo, ma anche della comunicazione immediata che la scrittura stabilisce tra ogni cosa esistente o possibile (mi ricorda Leibniz).

Come per Leopardi anche per Calvino la velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca a chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che se ne può ricavare. Nel secolo in cui tutto è misurabile, compresa la velocità del progresso, la velocità mentale non può essere misurata. La letteratura ha elaborato varie tecniche proprio per ritardare la corsa del tempo (iterazione, digressione), ma

La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte (Italo Calvino - Lezioni Americane)

sabato 12 luglio 2008

Il Castello Bianco...

Cari amici,

Volevo darvi un suggerimento per una lettura assieme ed una relativa discussione sulle tecniche di narrazione.

Leggete il "Castello Bianco" di Orhan Pamuk.

Ditemi che ne pensate...

domenica 29 giugno 2008

Il pranzo era apparecchiato per quattro

Autore: Gigi

“Ti amo.
Ti amo davvero.
Ti amo da sempre. Infinitamente.
Non ricordo di aver mai nutrito un sentimento così profondo nei confronti di qualcuno.
E’ la cosa più bella che io riesca ad immaginare.
Il tuo volto è la scenografia del mio tempo, i miei giorni un presupposto per incontrarti ancora.
Il caso ci ha sorriso e per breve tempo ci ha anche voluti vicini.
Un ristorante d’estate, pranzare allo stesso tavolo. Io, te e poi non ricordo, forse due sedie vuote.
Più probabilmente due volti sconosciuti. Come i nostri.
Poi sguardi sfuggenti che s’incrociano.
Ti ho desiderata immediatamente e non ho smesso di farlo nemmeno per un istante.
Rivederti è l’unico desiderio che mi accompagna e cresce di giorno in giorno. Rivederti.
Ancora una volta, una sola.
La tua assenza mi sta distruggendo.
Non importa. Adesso scriverti è quel che devo.
Affidare il ricordo ad una parola appesa sul foglio di carta sciatta è tutto quello che mi resta. Un’immagine.
Destinata, forse, a smarrirsi insieme a tanti altri ricordi di cui non ho alcuna memoria.
Sospesa su..” ehm, quella cosa là dannazione che cos’era? Ah, si: una zoca!
STOOOP!
- No, no. No. Non ci siamo. Accidenti a te, ma che diavolo ti salta in mente hai già dimenticato le battute?
Non voglio esprimermi sull’interpretazione poi.. sei proprio scarso amico, la zoca usala per impiccarti!
- Mah, adesso non esageriamo è solo una prova infondo. Forse non era una zoca..
- Era un filo, non c’è nessuna zoca sul copione.
Di questo passo non farai molta strada.
L’attore è attore anche quando non c’è un pubblico che lo guarda.
L’attore non prova niente, vive.
- Ma io..
- Molto presto, prima di quanto credi, qualcuno verrà a conoscenza di questa storia..
Non so chi, potrebbe trattarsi di un perfetto idiota oppure una persona che merita il nostro rispetto.
Devi essere professionale.
Non senti il suo sguardo che ti accarezza sulla pelle come la mano discreta di chi è presente anche quando non c’è?
Se vuoi essere un attore devi interpretare ogni singolo istante, finché l’interpretazione non sarà la tua stessa vita!
- Chi è la tizia della lettera?
- La persona a cui scrivi non esiste, non è mai esistita. E’ frutto della tua immaginazione.
E’ la donna che cerchi ma non riesci a trovare.
Ad un passo dalla disperazione puoi solo scriverne per continuare a sperare che un giorno questo desiderio assomigli a qualcuno.
- Stiamo perdendo tempo, non riesco a concentrarmi. Come faccio se non c’è nessuno che mi osserva?
- C’è qualcuno che ci sta osservando..
- Ma non è reale!
- Fidati, è più reale di quanto pensi, più di me e te senza dubbio!
- Uffa che seccatura queste regole! Non potremmo cambiare qualcosina?
- Amore santo, non te la devi prendere con me. La vita è un gioco ed ogni gioco ha le sue regole. Oggi tu sei attore ed io regista.
Ti senti defraudato nell’anima perché non vuoi obbedire alle regole che io ti sto imponendo.
Ma ignori che io stesso sono soggetto a regole che non ho stabilito e ti dirò di più: a me non piacciono affatto!
Ma se tali regole non ci fossero, adesso non ci saremmo neanche noi due.
Hai afferrato il concetto, o no?
- Credo di aver capito.
Sono scosso, ho bisogno di una pausa. Riprendiamo fra dieci minuti?
- Impossibile. L’arte non riposa.
Sursum corda! Torna al tuo posto, si rifà dall’inizio.

venerdì 20 giugno 2008

Era Novembre quando cominciò


Era Novembre quando cominciò.
La vita in questo stanco mondo andava avanti come al solito, la gente si spintonava, si aggrediva, si umiliava per arrivare. Dove, ancora nessuno lo sapeva. O nessuno se ne curava.
D’un tratto, proprio quando erano tutti presi a maledire l’arrivo del freddo e delle piogge autunnali, qualcuno lo notò.
Si fermarono tutti, le orecchie tese, lo sguardo inquieto che balenava da un viso all’altro. Nessuno sapeva dire da quanto tempo ci fosse, come nessuno poteva dire di averlo sentito cominciare. A poco a poco tutti iniziarono a passarsi la voce. Da un angolo della terra all’altro, la gente si telefonava. In meno di una giornata i notiziari cominciarono a spargere le loro sciocche ipotesi, e fu il panico.
Ovunque nel globo, non c’era via di scampo. Le montagne risuonavano sorde come megalitiche corde di basso. Gli abissi ribollivano scossi da onde a bassa frequenza. Uccelli, bestiame, cani e gatti cominciarono a impazzire. A volte si lasciavano morire di fame, altre attaccavano le persone e i loro simili senza motivo.
L’Uomo non si comportò meglio, come al solito.
Da ogni parte le sette millenariste sembravano uscire dai loro nascondigli animate da una nuova folle spavalderia. Gli occhi lucidi come quelli delle vacche al macello, cominciarono a salmodiare i loro messaggi odiosi e terrificanti. Dovunque si tendessero le orecchie, la frase era sempre la stessa.
La Fine è giunta.
L’Ira di Dio, o chi per lui, si stava per abbattere sul mondo, piccola scoria meschina del creato.
La consapevolezza di essere alla fine condusse gli uomini alla pazzia. Mentre scienziati e fisici tentavano dalle platee televisive di accampare scuse pseudoscientifiche e consolatorie. Una risonanza dei campi elettromagnetici dei corpi celesti, una fascia di onde sonore impazzite, un’eco del Big Bang rimbalzata nel Vuoto muto dell’universo, alla ricerca di uno sfogo, di una falla nella legge della dinamica del suono.
Ma nessuno diede loro ascolto.
Passò poco tempo, e le radio e i televisori cominciarono a non funzionare. Dopo una settimana il suono era così potente e continuo che ogni vetro sulla terra esplose in schegge minuscole.
I governi collassarono, le società implosero.
Nulla ebbe più senso, l’isteria prese il posto del senso civico.
Un’orgia di sangue globale diede il benvenuto al nuovo padrone del mondo: Caos.
La popolazione mondiale fu falcidiata dai suoi stessi componenti, piccole pazze creature sanguinarie incapaci di reprimere i loro più osceni istinti.
Se mai fossero esistiti gli Dei degli uomini, in quei giorni distolsero lo sguardo inorriditi.
Al trascorrere del primo mese, i timpani degli esseri umani cominciarono a saltare. Ogni singolo uomo o donna lacerò l’aria con le sue grida di agonia mentre il sangue ruscellava dalle orecchie.
Nel giro di un’altra settimana, tutti i sopravvissuti furono sordi.
Presero a vagare tra le macerie del mondo, un mondo che fino a poche settimane prima era stendardo della loro grandezza, vessillo di una civiltà talmente avanzata da essersi quasi doppiata. La paranoia prese il posto dell’aggressività, nessuno si fidava più di niente e di nessuno. Ogni ombra poteva essere un altro assassino, qualsiasi rumore ormai, dal più potente frastuono al sottile fruscio di un felino, non si distingueva dal silenzio. Chiunque poteva strisciare alle spalle e piantare una lama lurida tra le scapole di un suo fratello.
Annebbiati dalla paura non riconobbero più tra loro gli amici, i fratelli, i compagni, ma solo i predatori.
Lentamente, come pecore sorde, i deboli furono immolati sull’immenso altare della pazzia e della disperazione.
La Terra fu così svuotata del novanta percento della sua popolazione.
I pochi viventi si trascinarono lenti e barcollanti verso una misera esistenza di automi perversi e dementi. Ovunque risuonavano i bassi lamenti gutturali dei morenti, o le tristi voci degli spiriti. Un mantra agghiacciante, un lungo, infinito gemito di morte.
Nessuno poté mai capire cosa fosse accaduto, nessuno seppe mai la verità.
Il Ronzio cessò dopo quasi sei mesi, giunto ad una tale potenza da spaccare in due le montagne.
Ma anche di questo, nessuno si accorse mai.

martedì 17 giugno 2008

terra di lavoro





















Treno e tavoliere nel silenzio s'amano
pur furiosa scorrendo la via del ferro
sul ventre fecondato da
sacro lavoro .
Il manto rosato da gemme di ciliegio
si spoglia pettinato in un vestito giallo irsuto,
morbido, pungente tappeto di pelle
che su un tappeto di pelle s'è intessuto...
dov'è sparito allora il polacco occhialuto?
dove cento e cento umani hanno perduto
la vita, nella piana sconfinata?
in quale masseria disabitata
la sua natura l'uomo s'è perduto?
per che viscera d'omicidio incallita
la carne loro il campo ha concimato?
chi ha violato la fragile dignità d'ospite
antica preziosa novità della vita,
ora inflazionata debolezza dell'acrobata,
funambolo del globo reticolato?
Il paradiso atteso t'ha venduto:
un pezzo solo di materia inerte
sei stato strumento vocale,
macchina parlante per difetto,
o per eccesso,
e il detto fuori luogo t'ha tradito.
Parola imparata nuova di rifiuto
o gesto ribelle all'italiano
colto padrone
creduto ingrato crack dell'ingranaggio:
macchina lui, che non ti vuole
tra gli uomini,
supremo tu tra noi nel linguaggio
della fame e del viaggio
ricordo comune di passaggio.
Macchina lui che segna sua la terra,
tagliandola, Caino e Romolo, con l'aratro.
Volti sul giornale di mille condòmini
signore e ragazzi, vestiti bene,
come ad una festa,
lost - ingoiati dalla terra o dal mare -
perduti per la processione del pomodoro sull'appennino:
mille scatole diverrà il rosso contadino,
ed io, idiota, l'idillio vedo ancora al finestrino,
dicendo il campo di grano divino.
Moloch allora sei, questo che diverrà
all'altrettanto sacro desco familiare
oggi il nostro pane quotidiano:
la nuova comunione di Moloch,
pizza rossa, pasta al sugo.

lunedì 16 giugno 2008

Gioco Oplepiano 01: Il pranzo era apparecchiato per quattro


“Vedi il cruscotto d’avanti ai tuoi occhi ragazzo? Aprilo e passami la bottiglia. Bada a non fare scherzi o le cose potrebbero mettersi male per te e la pollastrella!” disse quell’uomo venuto dal nulla mentre guidava la sua Eldorado decappottabile del ’72.
Si chiamava Cristo, o almeno così pareva avesse detto. Aveva occhi come piccoli cubetti di ghiaccio, i capelli neri e lunghi, la barba incolta, il sorriso innocente e puzzava di sangue raggrumato.
Leslie, seduto accanto a lui, a mani legate con una corda, esaudì la sua richiesta. Aprì. Dentro il cruscotto c’erano una bottiglia di Buffalo Trace ancora sigillata e una Revolver Colt piuttosto vecchia.
Leslie alla vista dell’arma da fuoco spalancò gli occhi.
Pensò di prenderla velocemente e premere il grilletto verso quella testa matta, “Non pensarci nemmeno piccolo figlio di puttana!” fece tagliente Cristo continuando a guardare l’orizzonte infuocato d’avanti a sè.
Il sole albeggiava sputato dalle colline ardenti del deserto, la radio brontolava Wind Song dei Black Merda, il whisky era quasi finito e l’auto sfrecciando, spariva nella nube di calore.

“Aaaaah! Eccoci qui signori, siamo arrivati!” strillò Cristo fermandosi vicino una piccola e abbandonata stazione di servizio perduta nel silenzio di Dio.
Era nauseante la puzza del fast food diroccato.
Saltò giù dalla Cadillac tenendo in mano il fucile a pompa che aveva tenuto fra le gambe durante il viaggio. Era ilare, aveva nello sguardo qualcosa di assurdamente innocente, come se tutto fosse ordinario. Come il gioco di un bambino.
Andò dritto verso il bagagliaio per aprirlo.
Scarlett aprì gli occhi a stento. Era un miracolo che fosse ancora viva. Sentiva dolore e formicolio su tutto il corpo, sangue e polvere, ovunque. Non riusciva a respirare. Tossì.
“Ok ragazza l’ora della pacchia è finita, alza quel culo delizioso e vieni fuori. Ho fame. Tu?” prendendola in braccio la tirò fuori. A fatica si reggeva in piedi. Aveva anche lei le mani legate.
Li fece entrare nel fast food. Non si vedeva quasi nulla, poca luce filtrava dalle serrande rotte. Cristo li fece immediatamente sedere. Apparecchiò la tavola per quattro e s’allontanò inghiottito dal buio. I due ostaggi erano uno di fronte all’ altro. Lei con gli occhi bassi, lui la fissava cercando il suo sguardo, ma niente. Poco dopo tornò quel folle, con una coscia di maiale in spalla che rovesciò violentemente sul tavolo. Era andata a male e brulicava di vermi giallognoli. Puntò verso di loro il fucile e disse serrato: “adesso so che voi due vorreste rifiutarvi di mangiare l’ottima pietanza che vi ho portato, ma vedete… è necessario che voi la mangiate per riempirvi lo stomaco.” Scarlett non esitò e nonostante le mani legate dietro la schiena riuscì benissimo a divorare pezzi di quella carne putrefatta. Leslie non riuscì a trattenersi dal vomitare.
Cristo scoppiò in una risata maniacale.
“Cosa cazzo ti dice il cervello fottuto pazzo esaltato!? Perché siamo qui?! Che ti abbiamo fatto? Vogliamo solo tornare a casa…” gridò Leslie.
“Vedi figliolo, ho bisogno che voi mangiate. Perché chiunque arrivi qui, sarà mio ospite. E non potrei essere così scortese da non offrirgli nulla di buono… mi capisci vero? E poi calmati… siamo solo all’inizio.”

sabato 14 giugno 2008

brevi parole dello zingaro




Sono dipinte
le nuove nuvole
sulla nuova casa che mi ospita-
domani
sarò sicuro di non esserci
davvero stato

martedì 10 giugno 2008

Parlano di noi

PugliaLibre ha pubblicato un articolo su di noi... lo potete leggere qui

venerdì 6 giugno 2008

Gioco Oplepiano 01: il pranzo era apparecchiato per quattro

“Sì, ma non ho ancora capito per chi è quel posto in più.”

“Sara, non ti preoccupare. Tieni, bevi un po’ di questo. E’ un vino raro, sai?”

“Ti ringrazio, è quello che ci vuole.”

“Posso averne un goccio anch’io?”

“Tu sta’ zitto e ricordati perché sei qui.”

“Ok, stare fermo e muto. Mi passi il vino?”

“Sei un idiota, Claudio. Dicevo, cara, non devi pensare a niente. Devi solo goderti il pranzo e fare quello che ti ho detto.”

“…che offri tu me lo ricordo bene!”

“Zitto Claudio! Devi-stare-zitto! Assaggia questo carpaccio di pesce spada tesoro, e dimmi che ne pensi.”

“Mi piace, profuma di buono”

“Come te, piccola”

“…”

“Sara, ho detto: ‘come te piccola’

“Ah, sì… Non chiamarmi così, lo sai che non ti amo

“Per forza, ti ha appena detto che puzzi di pesce.”

“Muto Cla’, muto!”

“Già, taci! A proposito, Claudio, nel caso ti facessi strane idee: io non ti amo. Non amo nessuno dei due, non vi ho mai amati!”

“Grande Sara!”

“Scusa, ma chi te l’ha chiesto? Hai pure il culo piatto.”

“Io questo lo ammazzo. Appena è tutto finito, giuro che lo metto sotto con la macchina! Anzi no, essere stirato da una Ford è un onore. Prima mi compro una Duna e poi lo metto sotto! Ecco il primo, finalmente!”

“Mi scusi, le avevo chiesto gamberetti e zucchine, non spaghetti alle vongole.”

“SSH! Zitto! Non c’è il cameriere!”

“Cosa? Ma sei fuori? Che, il piatto è arrivato volando?”

“Stai zitto, non c’è il cameriere! Non c’è nessuno, è un self service, ok? Guarda, te l’ho preso io il piatto. Tié, mangia.”

“Scusa, ma allora chi cucina? Chi lava i piatti? E chi batte cassa?”

“E’ tutto automatizzato, Claudio. Tipo… tipo con i computer. Ora mangia, usa la bocca per mangiare in grazia di Dio!”

“… Comunque deve esserci un bug nel software, io avevo chiesto gamberetti e zucchine.”

“Allora, torniamo a noi cara.”

“Aspetta, prima c’era un’altra cosa che mi avevi detto di fare.”

“Oh, merda. Non mi ricordo.”

“Come non ricordi? Se non lo sai tu?”

“E’ che tra il vino e questo scassapalle ho perso il filo!”

“…il filo? Ma per filo intendi uno sottile, o anche qualcosa di più grosso? Che ne so, tipo corda...”

“Sei un genio.”

“Grazie.”

“Ferma Sara, non dirlo!”

“Dire cosa?”

“Quel che stavi per dire.”

“E tu che ne sai? E poi perché no?”

“Avresti sforato.”

“Ma perché vi fate gli occhiolini?”

“Perché non ti ci strozzi coi gamberetti? Del resto pago io, potrò avere qualcosa in cambio? Un pranzo per la tua morte per soffocamento. Mai scambio fu più equo!”

“Dai, non esagerare adesso.”

“Hai ragione gattina, ho perso le staffe. Ignoralo, pensiamo a noi.”

“Non c’è nessun noi, quante volte lo devo ripetere?”

“Ma…”

“Sara, mi passi il pepe?”

“Claudio, rassegnati anche tu: non sarò mai tua!”

“Ancora? E che c’entra col pepe? E poi non urlare, che disturbi i robot in cucina.”

“Piantatela! Guarda in che casino mi sono ficcato!”

“Scusa, mi sono confusa.”

“Non ce l’ho con te, Sara. E nemmeno con te, Claudio. E’ che tutta ‘sta faccenda è… complicata, e assurda.”

“Perché allora non ci dici il motivo di tutte queste stranezze?”

“Bene, ora vi spiego tutto per filo e per segno, tanto credo che ormai ci siamo. E’ un po’ complesso, perciò Claudio, soprattutto tu, concentrati.
L’altro giorno facevo un giro in rete. Le solite cose, sapete. Quando ad un tratto mi imbatto in un blog. E’ stato allora che tutto ha avuto inizio…”

Ecchime

Salve a voi, o impavide penne appule, o grafomani del tavoliere, o cime letterarie alle cime di rape.
Approfitto di questo post per salutare l'allegra compagnia nella quale ho avuto l'onore di essere accolto, oltre che per presentare il mio primo contributo al blog.
Gioco oplepiano, eh? Cris, maledetto pazzo! Ho passato ore a lambiccarmi il cervello per creare qualcosa di decente e che rispettasse le regole della tenzone. Il risultato è stato una serie di aborti letterari, l'ultimo dei quali verrà postato subito dopo questo messaggio.
Stremato dallo sforzo e fiaccato da una cefalea con più grappoli di un Arcimboldo, vi porgo i miei omaggi.
8ulls3y3
(che si legge bullsài e si traduce Lelio)

sabato 31 maggio 2008

Gioco oplepiano 01: Il pranzo era apparecchiato per quattro

Marco aveva un nodo alla gola color marrone con piccoli rombi senape. Si guardò nello specchio dell’ascensore attendendo il sesto piano dell’Hotel Jolly. Tutto a posto. Capelli, camicia, cravatta, giacca, cinta. Lo specchio non permetteva di guardare più giù. Diede una rapida stirata col palmo delle mani alla piega dei pantaloni. Le porte dell’ascensore si aprirono con un suono soffice.
Aveva sempre invidiato Vanni. Si incontravano ogni mercoledì sera e guardavano un film, poi la cameriera dell’albergo suonava alla porta sempre in perfetta sincronia con l’ultima riga dei titoli di coda e portava una cena, scelta da Vanni e da lui stesso pagata. Marco non poteva permettersi una vita in albergo ma Vanni era figlio di famiglia ricca. Non aveva mai lavorato.
Bussò alla porta 614. L’amico aprì. Era in vestaglia. Come sempre.
“Mi ha chiamato Giulia pregandoti di avvisarti che domani ci vuole a pranzo.”
Marco non riuscì a trattenere un sorriso ironico.
“Giulia? Ma sono quasi dieci anni che…”
“Ha detto che vuole parlarci.”
“Vabbé. Che film stasera?”
“Jules e Jim… mi sembra appropriato!”

Vanni guardò il film in silenzio, con lo sguardo fisso sul televisore. Sapeva che Marco voleva parlare di Giulia ma non intendeva dargli corda. Non prima di aver finito di cenare.

La cameriera bussò con tempismo perfetto, come al solito. Marco non aveva mai capito come fosse possibile, non aveva mai visto Vanni chiamare il ristorante.
Cenarono.

“Fidati – disse Vanni all’improvviso – il pranzo sarà apparecchiato per quattro.”
“Dici?”
“Sono sicuro. Giulia è una donna orgogliosa. E poi ha un sacco di manie… dai! Sei stato suo marito per tre anni. Gli stessi tre in cui io ero il suo amante.”
“…si però…”
“Lasciamo che reciti la sua parte… le farà bene.”
Marco non rispose. Vanni continuò.
“Dirà che non ha amato nessuno di noi due.”

La cameriera bussò alla porta. Sgomberò la tavola in silenzio ed uscì.

Marco andò via quasi subito.

Vanni uscì sul piccolo balcone della stanza e accese una sigaretta. Giulia lo raggiunse quasi subito.
“Hai fatto presto a cambiarti.” disse Vanni.
“Tutte le volte mi sembra impossibile che non mi riconosca – disse lei – possibile che non si accorga che la cameriera sono io?”
“Giulia. Marco è malato. Non dimenticarlo. Dopo l’incidente ha dimenticato tutto e il suo cervello ha ricostruito un passato che non può ricordare.”

Vanni spense la sigaretta sulla ringhiera e la buttò. Rientrò, si tolse la vestaglia e la ripose nell’armadio.
Giulia lo guardava senza parlare.
“So cosa sto facendo – disse Vanni all’improvviso – non temere. Domani apparecchia la tavola per quattro ed entra bene nella parte. Attenta a non commettere errori. Il suo equilibrio è ancora molto precario. Ripetimi quello che devi sapere.”
“Io e lui siamo stati sposati per tre anni e intanto tu eri il mio amante… poi… io ho mollato entrambi. Ah ecco… non vi ho mai amato… nessuno dei due. Ma…”
“Fidati. Sono io il dottore …tu fai quello che ti dico. Adesso andiamo, la camera è pagata fino a mezzanotte.”

Marco tornò a casa a piedi. Pensava a Giulia, a quella cameriera che le assomigliava tanto, al pranzo dell’indomani, a cosa c’era di tanto importante da dire. In fondo lui ci sperava ancora e nonostante temesse la fine amava immaginare un inizio.

domenica 27 aprile 2008

Gioco Oplepiano 01

Allora propongo un gioco oplepiano:

Scriviamo e postiamo un racconto scritto con le seguenti regole:

1) Il titolo del racconto deve essere: "Il pranzo era apparecchiato per quattro" (Frase presa aprendo a caso Anna Karenina di Lev Tolstoj - Ed. Einaudi, 1945 e 1993, pag. 594);

2) I personaggi sono 3 (2 uomini e 1 donna);

3) La donna non ama né ha mai amato nessuno dei due uomini;

4) Il racconto dovrà contenere la parola "corda";

5) Il racconto dovrà finire con la parola "inizio";

6) Il racconto dovrà essere composto precisamente da 2712 caratteri (spazi esclusi).

I collaboratori del blog potranno postare direttamente il racconto. Chiunque altro può chiedere nei commenti lasciando un indirizzo e-mail

venerdì 25 aprile 2008

Premio "Città di Bari"


E' stata nominata la cinquina dei finalisti al premio "Città di Bari".

    “Lo spazio bianco”, di Valeria Parrella - Einaudi
    “L’illusione del bene”, di Cristina Comencini - Feltrinelli
    “La carovana Zanardelli”, di Giuseppe Lupo - Marsilio
    “Re in fuga”, di Vittorio Giacopini - Mondadori
    “I sentieri del cielo”, di Luigi Guarnieri - Rizzoli
I libri partecipanti erano:

1) Campagna Rocco A pelo d’acqua Adda
2) Pacifico Anna Una storia che credevo chiusa Adda
3) Maiullari Giovanni Dogali Aliante
4) Fusco Celado Anio Salvarsi Arcipelago
5) Annibaldis Giacomo Casa popolare vista mare Besa
6) Coratelli Fernando Altrotempo Cadmo
7) Lucente Marilena Di dove sei Cargo
8- Vinci Simona Strada Provinciale Tre Einaudi
9) Parrella Valeria Lo spazio bianco Einaudi
10) Ricco Pino Apri gli occhi Ennepilibri
11) A.Forcellino – B.Schisa Lo strappo Fanucci
12) Masciola Cristina Razza bastarda Fanucci
13) De Paolis Federica Via di qui Fazi
14) Comencini Cristina L’illusione del bene Feltrinelli
15) Di Natale Silvia Vicolo verde Feltrinelli
16) Cibrario Benedetta Rossovermiglio Feltrinelli
17) Magnani Milena Il circo capovolto Feltrinelli
18) Zagaria Cristina L’osso di Dio Flaccovio
19) Cristò Come pescare,cucinare e suonare la trota Florestano
20) Alessandro Zignani Il sogno di Hamnet Florestano
21) Cutrufelli Maria Rosa D’amore e d’odio Frassinelli
22) Bonvicini Caterina L’equilibrio degli squali Garzanti
23) Anna Pisani Io solo che guarda Iuculano
24) Cairo Vito Un sogno di…vino Il Filo
25) Manoni Sandro L‘isola delle lusinghe Il Filo
26) Palombo Francesca Volevo dirtelo Il Filo
27) Tinti Dianora Il pizzo dell’aspide Il Filo
28) Rugolo Antonino Massimo Sulle ali della tenerezza Baruffa
29) Susani Carola L’infanzia è un terremoto Laterza
30) Berardi Antonio Il cuore e la mente Leonida
31) Prenna Giuseppe Così persi il mio “dio” Levante
32) Di Credico Maurizio Benvenuti a Castleville Liberodiscrivere
33) Serpieri Alessandro Mare scritto Manni
34) Carofiglio Francesco L’estate del cane nero Marsilio
35) Familiari Rocco Il sole nero Marsilio
36) Lupo Giuseppe La carovana Zanardelli Marsilio
37) Affinati Eraldo La città dei ragazzi Mondadori
38) Van Straten La verità non serve a niente Mondadori
39) Giacopini Vittorio Re in fuga Mondadori
40) Zambetti Nicola Paesaggi umani Pensiero Arte
41) Rossano Antonio Quel che restò di una città Progedit
42) Donato Bendicenti La donna di Parigi Rizzoli
43) Di Bari T. – Di Credico F. La Cambusa Rizzoli
44) Guarnieri Luigi I Sentieri del cielo Rizzoli
45) Pent Sergio La nebbia dentro Rizzoli
46) Assini Adriana Le rose di Cordova Scrittura & Scritture
47) Tenerelli Nicola Tarsia Stilo Editrice
48) Campora Francesco L’acqua non ha memoria Voland
49) Cardosa Dulce Maria Campo di sangue Voland
50) Ovejero Josè La vita degli altri Voland
51) Serna Enrique Miss Messico Voland
52) Tinta Lettera aperta ad un amante Wip

Segnalazione corso a Bari

CORSO di GIORNALISMO e SCRITTURA BREVE

Bari, Biblioteca Provinciale Santa Teresa dei Maschi
dal 9 maggio al 6 giugno 2008

20 ore di lezione in aula. 6 mesi di tutoring on line.
Un seminario con il musicista Nabil Ben Salameh.
Un seminario sulla poesia contemporanea con Fabio Moliterni

Informazioni e calendario sul sito
storie

giovedì 17 aprile 2008

Ubahn parte IV, il dolore del ferro...


A volte, nelle comunque perenni giornate invernali, l’acqua cade tagliando i volti. Violenti tagli, a scavare solchi sulla pelle ammorbidita dall’umido, senza sangue. A volte le vetture si fermano, senza riprendere. L’acqua si schianta sui fili ad alta tensione, provocando lampi che che una dignità simil-umana aveva fino ad allora con tenerezza risparmiato, dando seguito a tuoni strozzati, dai toni altissimi, l’ultima resistenza dei cavi dell’alta tensione.

Ci sono tratte che corrono dritte senza mai curvare, come se tentassero un meritato suicidio; altre invece, quelle che dal centro portano ai ghetti, compiono lunghi giri e percorsi a zig-zag, quasi a voler cullare i figli violentemente portati nel proprio grembo in un gesto di vergognosa quanto necessaria pietà. Ci sono linee poi che attraversano il fiume, per sparire là, in quelle zone che le agenzie immobiliari fingono di non conoscere, dove non si parlano lingue umane. E’ qui che le vetture procedono sottoterra, come a voler sfuggire sdegnosamente a quella melma grigia e unta che cola dal cemento qualche metro più in su.

Nei ghetti le case tendono ad abbassarsi sempre di più, a manifestare un senso di pudore e indifendibile dignità, a nascondersi, fino poi a scomparire per la vergogna nei boschi, appena fuori dalla città. Ai palazzi alti del centro fanno da contraltare gli alveari di 3-4 piani delle periferie, senza balconi né slancio alcuno, grigi per confondersi con la nebbia, per non essere scoperti nuovamente, dopo essere già stati abbandonati.

Le vetture che solcano il centro sono boutique di spensieratezza, in dotazione forse da qualche anno, ma già in procinto di passare di moda. Sono luoghi da cui duole separarsi, e da cui è lecito lasciarsi ingannare. Fuori sono di color rosso fuoco, di un fuoco spento dal tempo. Non so se per un gesto di dignità o di dimenticanza, qui non si trova pubblicità di alcun tipo; forse per rispetto o più probabilmente per assenza di considerazione alcuna per forme di esistenza secondaria, il fuoco spento delle vetture non è intervallato da altri colori, o da forme geometricamente disposte per attirare l’attenzione di acquirenti ditratti dal sonno, sia esso quello mattutino, sia esso quello serale, quello più insperato di chi ha perso anche quel minimale slancio del giorno appena iniziato.

Se si percorrono le linee che dal centro portano lontano, verso i boschi del pudore, il progressivo scavarsi dei solchi facciali di chi è a terra segnala l’ingresso negli Stadteil di periferia. Le attività commerciali seguono lo stesso processo di invecchiamento; i megacentri commerciali del centro lasciano il posto ai megastore di materassi economici e ai chioschi per sigarette e giornali, rigorosamente turchi.

Esistono delle fermate nel vuoto, dove non vi sono alveari in cui vivere né chioschi da impollinare. Nessuno sale, nessuno scende. Ma la vettura si ferma, nel buio mattutino di uno dei boschi periferici, o nella sera silenziosa e gelida di un’ansa deserta del Reno, circondata da depositi industriali dai cui recinti fuoriescono come lance enormi pezzi di lamiera rossa.

sabato 12 aprile 2008

morte a poggiofranco Trizio remix

william - io ci ho provato...-

Fui svegliato nella sonnolenta pomeridiana arsura dello scirocco in un paesaggio metafisico di salici e tralicci. Era nella corte immensa dei condomini di Poggiofranco, tubo squadrato a raccogliere il cielo in quattro righe.

Come un incubo uscii dal dormiveglia estivo, in cui qualunque cosa può succedere restando nel sonno e senza conseguenze. Rimasi nell’attesa sospesa infinitamente dell’incertezza…

Mi affacciai a cercare la causa di quel rumore o cosa che m'avesse destato.

Poi, come una cascata, come una valanga, uno chiama due che chiama quattro, allora otto sedici, li vidi: la folla riempì la sala giochi.

Un vociare come di sciame, curiosità e fuga, a tempo, come una quadriglia, come un’onda, andava e tornava la risacca dell’orrore.

Come mosche sulle feci, vespe, entravano a rotolarsi con gli occhi nella morte banale della controra, niente lacrime, facce pallide di chi aveva veduto il sangue, chi aveva seguito col sorrisetto cinico l’amico per vedere, guardare, come fosse sfida metterci il naso.

Ed invece adesso ci rimetteva lo stomaco. S’andavano a vaccinare della morte prima che venisse coperta e la morte gli si donava avidamente, in loro si radicava dal vedere. Il sangue e la faccia immobile improvvisamente gli rivelavano la natura dell’amarena liquida per terra. Sangue... e il sangue suo correva a guardare, a cercare, e tutto in testa gli veniva.

Al sangue il sangue e freddo col freddo si chiamavano.
Allora il corpo bloccava la pancia in uno spasmo, gli tracciava un nodo.

Con uno scatto usciva mentre l’occhio aveva il tempo di collegare le piastrelle gelide smaltate alla macelleria ed al lavabo del dentista e al sangue e al freddo si mischiava la ferita aperta ed il dolore. Allora il brivido gli raddizzava la schiena con una scossa, gli vomitava l’arroganza del suo guardare.

Al balcone quel gelo arrivava ora, in un silenzio assurdo nella folla. Le sirene in lontananza distorcevano lo spazio e quella piazzetta, liquefatta in campi di rovente calore e squadrata di gelida precisione, come un gelato fritto cinese o quelli caduti dalle mani d’un bambino, spalmati oscenamente a terra al sole.

Ora ricordo il grido ghiacciato che mi percorse l’orecchio e la schiena: ho ascoltato il grido dell’agnello sgozzato al marciapiede. Era la canna spezzata della gola, il diaframma che si rompeva mentre tirava il suono fuori, l’istante brevissimo in cui il corpo capiva che con il fiato usciva anche la vita.

E allora con il fiato uscì anche la vita. Vibrando come per scalciare qualcosa, debole oramai, che trattenesse, la vita usciva tutta e potente rombando e tremando come nella gola del capretto.

A me era vertigine. L’ultimo urlo del morto ammazzato avevo sentito e adesso ricordo, minore, quasi un petardo lo scoppio del proiettile. Ricordavo solo adesso, come fosse ovvio averlo sentito.

Adesso pensavo a provare cosa si provava -pensavo - quando entrava, come in moviola, il freddo ferro nella carne, la velocità con cui le ossa o tutta la carne venivano attraversate e spezzate da quel misero pezzo di ferro. Tanto. La falangina del mignolo, la sezione di un Fisher. Perché non si poteva fermare con la mano e lui aveva provato, disperato, come se gli lanciassero una biglia.

La velocità violenta che abbatteva tutto in un piccolo punto. L’infamia dell’esplosione della pistola, chissà se dava tempo: se l’elettricità del dolore riusciva ad avvisare in qualche modo la centralina; se l’ultimo istante, quel grido rotto come i raggi in una ruota di bici, era stato, nel limite di delta t che tende a zero, dolore.

A vederla l’aveva vista, l’immagine l’immaginava, ma quel suono fatto così bene… era vero… e la gente adesso era vera.

Ma quel che non riusciva a comprendere era da dentro che cosa si provava davvero, quando entra come un morso una punta nella carne, una iniezione senza fine. Questo l’ossessionava ora: doveva andare a vedere o doveva scappare, con la moto, lontano.

domenica 6 aprile 2008

Un'altra maria











Un’altra maria fu incinta e vergine
e povera, riscaldata a stufa elettrica,
appartamento di un quartiere popolare.
Gesù nacque di nuovo
nel cesso di una stazione
e lì fu lasciato a dissanguare
- la vergine scappava in pianto
per aver senza peccato
partorito la vergogna -
non ebbe modo di redimere
chè lo trovarono morto e mai risorto.
Non è tempo di salvatori
ognuno preghi se stesso per sé
e faccia ciò che vuole.
La vita non è sacra
è sacra la nostra libertà.

venerdì 28 marzo 2008

I cantieri del romanzo

E' un po' lungo ma secondo me vale la pena di leggerlo.



I cantieri del romanzo
di Giacomo Sartori

1. Il romanziere e le sue materie prime

Come moltissimi altri autori contemporanei di narrativa, anch’io per ogni testo che scrivo, e naturalmente a maggior ragione per i testi lunghi, per i romanzi, utilizzo molti materiali che mi servono per attingere delle idee e delle informazioni di vario tipo. Che mi servono quindi come ‘documentazione di base’, come ‘materia prima’. Dando a questo termine un senso lato: si va da testi teorici che poi si riflettono nelle tesi di fondo/assi centrali del testo, a scritti tecnici molto specialistici legati appunto a qualche dettaglio di minore importanza (testi sul linguaggio corporale per descrivere un determinato e non ricorrente gesto di un personaggio, testi sulle armi da fuoco per descrivere un fucile che appare nelle mani di un personaggio…).
L’insieme di questi materiali comprende a seconda dei casi testi di storia, di filosofia, di psicologia e di psicanalisi, di etologia, scientifici, tecnico-specialistici, iconografici, biografici e autobiografici… (Naturalmente tra i materiali di documentazione ci sono anche quelli che provengono da internet, che io stesso come molti altri scrittori utilizzo in modo sempre più massiccio. E qui, proprio per il carattere aleatorio della navigazione, la ricostruzione dei percorsi, dell’ordine temporale e della gerarchizzazione dei vari strati di informazione, delle quali parlerò nei paragrafi seguenti, si farebbe ancora più difficile). Tralascio volutamente di includere i testi letterari, i quali beninteso possono e sono effettivamente quasi sempre usati come fonte di idee e di informazioni, o comunque come contesto di riferimento e/o come referenti di simboli e stilemi, perché questo versante della genesi di un testo è molto più assodato. Un nostro automatismo mentale, del quale sarebbe interessante rintracciare le origini, fa sì che quando consideriamo un dato autore pensiamo subito alle influenze letterarie esplicite o implicite, o anche ai dati biografici, ma molto meno, a parte qualche caso tutto sommato raro (per esempio Gadda), all’influenza degli scritti e delle fonti non letterarie.
Naturalmente certe materie prime lasciano delle tracce così evidenti che i critici e i lettori avveduti li rinvengono con relativa facilità. Sappiamo per esempio che Bergson è stato essenziale per Proust, dopo gli scacchi del Jean Santeuil e del Contre Sainte-Beuve, per arrivare al progetto della Recherche. E non possiamo non vedere Nietzsche quando leggiamo D’Annunzio. Questi sono per così dire i materiali che rimangono a vista anche dopo lo smantellamento dei cantieri di cui si è servito l’autore: gli architravi, le imponenti chiavi di volta. Molti altri materiali forse meno nobili ma altrettanto essenziali - le minutaglie utilizzate per i riempimenti e per gli isolamenti, le sabbie inglobate nelle malte fini, i pigmenti delle vernici… - sono però per la maggior parte destinati a restare nascosti nell’opera.
Questi materiali che nutrono il testo possono essere, e di solito lo sono, molto abbondanti. Per quanto mi riguarda, sono cosciente per esempio che fare a posteriori un rigoroso inventario di tutti i testi che ho utilizzato per un determinato romanzo, e soprattutto valutare poi con una accettabile approssimazione il rispettivo apporto al testo finale, sarebbe un grosso lavoro, un lavoro improbo, se non per certi versi, soprattutto a distanza di anni, impossibile. Dovrei riuscire a piazzare nel loro ordine cronologico la farraginosa e disordinata, e per molti versi ‘casuale’ (si veda più sotto) concatenazione di testi, e situarli nei loro rapporti con il testo in fieri, o per meglio dire con le varie e successive versioni del testo in fieri, in uno spazio temporale che abbraccia diversi anni (diciamo da 2-3 a 5). Naturalmente molti testi sono serviti come semplice rimando, hanno rappresentato solo una via - pur sempre necessaria, giudicando a posteriori - per arrivare ad altri testi, come quelle persone che nella nostra storia sono importanti soprattutto perché ce ne hanno fatto conoscere altre che si sono rilevate effettivamente importanti, svolgendo quindi una funzione di ‘ponte’. Sarebbe insomma un paziente lavoro da archeologo che non ho il tempo di fare e che a che dire il vero non ho mai avuto la tentazione di fare.
Sono però convinto che questa impresa certosina di ‘critica genetica’ sarebbe molto utile, e mi insegnerebbe molte cose. Sono sicuro che questa operazione di riesumazione della ‘bibliografia sommersa’ mi permetterebbe di intaccare almeno in parte l’aspetto misterioso che il testo finito ha per certi versi ai miei stessi occhi (perché proprio quel dettaglio della vicenda?, perché proprio in quel momento?, perché un cappotto rosso?…), riportandomi alla memoria dei dettagli della genesi del testo che ho finito per dimenticare io stesso. Ma andiamo con ordine.


2. Le materie prime e i cantieri

Nell’attività che chiamiamo ‘scrittura’, e per la quale mi sembra appropriata la metafora del cantiere, il romanziere lavora su delle materie prime di varia natura e varia origine, e le riordina, operando continuamente delle scelte, centinaia di scelte, migliaia, il più delle volte di tipo binario (la prima persona o la terza?, il dato tema troverà spazio o no?, il dato personaggio morirà o non morirà?, nel tal paragrafo fuma una sigaretta o non la fuma?…) o anche di tipo non binario, in relazione a codici culturali consci o solo parzialmente consci (ad es. il posizionamento morale di un personaggio, le posizioni corporali…). Il processo mentale corrispondente all’attività che chiamiamo scrittura consiste principalmente in una organizzazione di materiali operata mediante una successione di scelte tra varie alternative possibili. Queste scelte sono naturalmente in rapporto con i testi che accompagnano e alimentano la scrittura, dai materiali cioè che alimentano il cantiere.
Se, tanto per intenderci, voglio descrivere un coltivatore dell’età del bronzo nella regione che corrisponde all’attuale Carelia, argomento sul quale supponiamo che non sappia nulla prima di documentarmi, i caratteri del mio contadino protocareliano deriveranno esclusivamente (anche se certo passati al setaccio dal mio buon senso, della mia ‘conoscenza generica dell’uomo’…) dalla mia documentazione ad hoc (faccio volutamente astrazione dal filtro costituito dalla cultura letteraria). Spesso invece l’apporto dei testi di appoggio è meno assoluto, perché si innesta su un sapere pregresso. Se per esempio devo descrivere un milanese contemporaneo nevrotico, i testi sulla nevrosi e sui maschi nevrotici che consulto serviranno a integrare le mie conoscenze e letture precedenti e la mia esperienza di vita (e naturalmente il ricordo della miriade di personaggi nevrotici della letteratura da me conosciuta; ma, ripeto, sto concentrando l’attenzione sui dati non letterari). E se descrivo un abitante di una galassia che si chiama BW-C2y, mi rifarà per quel che mi potrà servire, alle esperienze dei viaggi spaziali, a quello che si conosce del cosmo e della sua origine, all’ingegneria genetica e all’intelligenza artificiale, e via dicendo. Ma, è questo che mi preme sottolineare, qualche elemento più o meno significativo dei testi consultati migrerà pur sempre nel testo letterario.
Potremmo ipotizzare, come mi sembra si faccia comunemente, che questi materiali abbiano una pura funzione di ‘materie prime’, che vengano cioè impiegati nell’azione di scrittura senza lasciare alcuna scoria, senza modificare la percezione dello scrivente, senza esercitare alcuna influenza sulla scrittura stessa. Mi pare molto più verosimile che tra il testo letterario e le sue materie prime si instauri il più delle volte un rapporto che non si limita ai ‘contenuti’. In altre parole la scrittura, a cominciare dalle scelte lessicali e sintattiche, è condizionata in qualche modo dal lavoro di documentazione. Lo scrivente stesso non è più lo stesso, dopo essersi documentato: la sua percezione si è allargata/modificata, la sua lingua ha ricevuto degli apporti/contaminazioni.


3. L’oblio del lettore e l’oblio del romanziere

Kundera ne Il sipario ha descritto in modo molto convincente il ruolo invadente dell’oblio nella fruizione da parte del lettore di un romanzo. Oblio, ci dice Kundera, a tutti gli effetti inevitabile, vista la quantità di elementi contenuti nel testo. Oblio, si potrebbe aggiungere, in fondo necessario per ‘rafforzare’ l’effetto estetico complessivo dell’opera, prendendo le distanze dal marasma dei dettagli (qualcosa come la maestosa visione d’insieme, necessariamente lacunosa rispetto alla miriade di possibili scorci a distanza più ravvicinata, ma destinata a imprimersi per sempre nella memoria, entrando in una cattedrale). Kundera contrappone tale «oblio devastatore del lettore» a «l’indistruttibile castello dell’indimenticabile» costruito a fatica dall’autore.
Si potrebbe forse obiettare a Kundera che qualcosa di simile all’oblio del lettore si può rinvenire anche nel lavoro dello scrittore, nella scrittura stessa. In realtà già nelle fasi finali della stessa, l’autore ha dimenticato certi aspetti del testo al quale sta lavorando, ha per esempio almeno in parte dimenticato i dettagli della miriade di cantieri che stavano dietro alle singoli frasi. Ha dimenticato, se non altro, i dettagli delle impalcature che in quei cantieri sorreggevano ogni singola frase in attesa che si reggesse da sola. Nelle ultime fasi della scrittura, per quel che mi riguarda, faccio attenzione ‘all’impressione generale’, ‘vado a intuito’, ‘ascolto la musicalità’, prendendo le distanze dal lavorio senza alcun paragone più cerebrale (l’infinita sequenza di scelte alla quale ho accennato più sopra), prendendo le distanze dai testi che ho utilizzato per la documentazione, in un certo senso appunto ‘dimenticandoli’. Anzi, questo oblio nelle fasi finali della scrittura ha forse l’importante funzione di lasciare più spazio alla visione d’insieme, è forse un presupposto indispensabile per avanzare verso il testo finale. È come cioè - per restare nella metafora del cantiere - se l’autore aprisse un cantiere conclusivo che ha come finalità la ripulitura degli spazi occupati dalla miriade di cantieri precedenti, l’eliminazione dei detriti e dei materiali non utilizzati, senza preoccuparsi troppo della specificità del lavoro che è stato svolto in ciascuno di essi. Un cantiere a un livello gerarchico più alto, se si vuole esprimersi con il gergo utilizzato per le tassonomie.
Se rileggo a posteriori la versione definitiva di un mio testo, devo ammettere che moltissime delle scelte che mi sono trovato di fronte e che ho fatto (intendo: l’alternativa precisa che si è presentata alla mia mente, il corredo di motivi e di implicazioni e di significati e di simboli che accompagnava ciascuna possibilità…), proprio per il loro numero infinito, le ho dimenticate, proprio completamente dimenticate. O meglio, grazie alla dimestichezza che ho con il mio modo di scrivere, rileggendo una data frase mi rendo conto che dietro si annidano delle scelte, so benissimo che ogni parola corrisponde a scelte ben precise, e che la versione finale della frase è il risultato di una serie di passaggi via via più riusciti. E facendo uno sforzo posso in parte intuire queste scelte e queste varianti meno riuscite, riesco a ricostruirle parzialmente. Ma devo riconoscere che della maggior parte di queste decisioni ho perso la memoria, non ritrovo in me alcuna traccia di esse. Semplicemente mi sembra che il testo vada bene così com’è, che ‘scorra bene’, non sia insulso, non sia migliorabile.
Non sto dicendo che ho dimenticato tutte le scelte e tutti le versioni intermedie di quel mio testo che sto rileggendo, perché come è ovvio molte, a cominciare naturalmente da quelle che considero essere le più importanti, le ricordo nei dettagli. Ma per ricostruirne molte altre dovrei fare mente locale, e per altre ancora anche facendo mente locale non arriverei appunto a nulla. E comunque anche per molte di quelle che mi sembra di ricordare bene, farei molta fatica a ritrovare adesso il corredo di testi che le hanno determinate o comunque influenzate.
Naturalmente il fatto che lo scrittore dimentichi via-via quello che fa va contro l’idea dell’artista che abbiamo e alla quale restiamo in fondo attaccati. Quest’idea, questo mito, che si porta dietro un pertinace bagaglio romantico, presuppone che l’autore controlli ogni elemento del testo, dove questo controllo è inteso come un imperio assoluto e avulso dal tempo (senza dimensione temporale, e quindi anche successivo della conclusione della data opera, anche precedente). Quasi che nella persona (il cervello) dell’autore esistesse un quadro di comando costantemente collegato ai singoli elementi del testo (il testo definitivo), una distesa di bottoni e di cursori non destinati a invecchiare e a ossidarsi, e sempre in funzione. Come se il testo definitivo non fosse il più delle volte il risultato di una graduale azione di affinamento svolta su varianti successive. La stessa letteratura, e in particolare Proust, con le sue riflessioni sulla memoria e sulle fasi successive nell’esistenza degli individui, ma anche e soprattutto le scienze cognitive (in particolare i recenti lavori sulla ‘memoria di lavoro’ durante l’attività di scrittura), e la psicanalisi (il ruolo degli elementi e delle istanze non coscienti), ci hanno dimostrato che così non è.
Si potrebbe forse osare un parallelo con la pittura. È evidente per esempio che ogni singola pennellata di un quadro di Tiziano si può considerare essenziale per la realizzazione dell’opera finita. Evidentemente Tiziano mentre dipingeva ha sentito la necessità di quella specifica pennellata (in opposizione a un pennellata diversa, o in un altra zona della tela…) su cui fissiamo l’attenzione, considerandola appunto insostituibile, e tutte le pennellate che hanno seguito hanno tenuto conto di essa e della sua insostituibile specificità. Ma si può ragionevolmente dubitare che Tiziano alla fine del quadro (e tanto più a distanza di tempo) serbasse memoria di ogni singola pennellata, e della precisa successione delle varie pennellate. Si può più ragionevolmente ipotizzare che Tiziano si servisse a partire da un certo momento di una intuitiva ‘impressione d’insieme’ (le scienze cognitive sarebbero molto più precise). Quindi Tiziano è sì il ‘controllore’ di ogni millimetro del suo quadro, e di ogni pennellata, ma questa sua capacità di controllo non può essere intesa come una facoltà fuori dal tempo, destinata a sussistere ab aeternum, ma come un potere legato alla successione temporale del lavoro mentale - con la sua precisa dinamica - che ha portato alla realizzazione del quadro in questione.


4. Le mie materie prime

Per ogni mio romanzo ho un’idea abbastanza precisa di come può essere suddivisa o classificata la mole di testi di documentazione che ho utilizzato. In parte sono libri che ho comprato e che quindi conservo: molti scaffali della mia biblioteca sono legati a una specifica tematica legata a un dato testo (ad es. i testi storici sul fascismo utilizzati per Anatomia della battaglia). Sono nati da un’accumulazione utilitaristica ma anche casuale (man mano che mi serviva approfondire un dato aspetto, e senza alcuna ambizione di esaustività), una disposizione che per pigrizia, o forse anche per attaccamento a quella casualità che rispecchia pur sempre in un certo senso l’essenza del testo finale, non ho più sconvolto. Altri testi invece li ho presi nelle biblioteche, o me li hanno prestati, ma hanno lasciato delle tracce ben riconoscibili (nel testo stesso, o nelle ‘note scritte di appoggio’, che conservo, al testo). Molti altri testi non hanno invece ahimé lasciato traccia alcuna, e mi sarebbe invece più problematico rintracciarli. Questo però non mi impedisce di poter individuare senza difficoltà, come dicevo, le grosse categorie di documenti che hanno contribuito a un dato testo testo.
Quale che sia la natura dei documenti di cui mi servo, nel lavoro di ricerca che faccio per ogni mio testo posso riconoscere, ormai lo so anche prima di cominciare, due fasi ben distinte. La prima fase è quella che precede l’inizio della scrittura vera e propria. Ogni volta che comincio a lavorare a un nuovo testo - quando cioè qualcosa dentro di me ha deciso che il dato abbozzo mentale è promettente e adatto, e farà del suo meglio per diventare un romanzo - inizio a documentarmi. La documentazione mi sembra un aspetto fondamentale e imprescindibile del lavoro di ‘scrittura’ (dove appunto la ‘scrittura’ comprende quindi anche le attività a monte, alla scrittura vera e propria).
Questa esigenza di documentarmi è forse dovuta al fatto che sono un autodidatta, e che non ho fatto studi superiori umanistici-letterari. Probabilmente è una forma di sindrome dell’autodidatta, quel complesso di chi non riesce a liberarsi della sensazione di non sapere niente di niente. Ma certo in parte è anche una deformazione professionale dovuta alla mia formazione scientifica e al mio lavoro scientifico. Un articolo scientifico inizia sempre con un cappello che introduce la problematica, e che rimanda alla bibliografia più significativa in materia. E poi integra le conoscenze acquisite, o le mette alla prova, o anche, come ha teorizzato Kuhn, le sovverte radicalmente. Ma insomma non perde mai di vista il contesto della comunità che ha lavorato su quella stessa problematica.
Ebbene, grazie a questa deformazione io prima di iniziare a scrivere sento sempre il bisogno di documentarmi il meglio possibile. Se parlo di un assassino, vado a vedere cosa si dice sugli assassini, se parlo di un assassino psicolabile, cosa dicono i testi di psicopatologia. Se descrivo un cielo, o un ghiacciaio, o dato albero, vado a vedere se trovo qualcosa sui cieli, sui ghiacciai, sul quel dato albero. Non per dare poi al mio testo una verosimiglianza realistica, intendiamoci bene, ma come mia conoscenza di base. L’albero nel mio testo potrà risultare rosso scarlatto (spesso succede proprio così!), o azzurro, ma io so che nella realtà è invece verde pallido e in autunno diventa giallo oro.
So che molti autori lavorano come io lavoro, e sono cosciente che in quanto sto dicendo non c’è nulla di originale. Mi stupisce però che molti altri scrittori utilizzino, per quanto si può capire, altri procedimenti, che astraggono completamente dai saperi specialistici. A mio parere si può dire per esempio, e si potrebbero portare molte prove, che la psicanalisi non è molto presente nella narrativa italiana contemporanea. Molti romanzieri italiani contemporanei mostrano di essere completamente ignoranti in materia, e non sembrano preoccuparsene. È sufficiente un’infarinatura di base di psicanalisi per rendersi conto che i loro personaggi e le loro storie non stanno proprio in piedi dal punto di vista dei meccanismi che operano nella psiche. Devo confessare che trovo questa situazione piuttosto imbarazzante. Non tanto per la mancanza di coerenza psicanalitica in sé, che non è certo un elemento necessario, ma appunto per il fatto che questa incoerenza non sembra essere in alcun modo essere voluta, non sembra essere cosciente di se stessa, con un conseguente inevitabile sconfinamento nei clichè (il più delle volte inconsci) presenti nella cultura italiana.


5. I cantieri del romanzo

L’arte del romanzo può in effetti essere vista come un vasto territorio di sperimentazione, un vasto cantiere, dove convergono gli strumenti specialistici provenienti dalle discipline umanistiche e dalla scienza. O meglio, il romanzo si spinge nelle zone d’ombra non ancora esplorate, spesso anticipando (in particolare nel campo della psicologia, o anche in quello scientifico), crea dei corti circuiti tra approcci diversi, alligna sulle contraddizioni che li oppongono. Questo rapporto è di solito più facilmente rinvenibile nelle narrazioni di tipo mimetico o realista. Ma anche le narrazioni più lontane dalla mimesi (il Beckett romanziere, o Cortázar, o la Ortese, per intenderci) a ben guardare non prescindono mai - e sempre astraendo dalle influenze più strettamente letterarie - da un ben maturato posizionamento rispetto a tali saperi. Calvino, con la sua curiosità intellettuale e il continuo sforzo di capire cosa succedeva in discipline anche molto lontane dalla sua formazione, e di tradurre le evoluzioni di queste nella propria poetica (o comunque di adattare quest’ultima alle prime), è per me un ottimo esempio (indipendentemente dall’affinità che si può provare o meno per l’universo delle sue opere) della necessità e della fecondità di questo confronto. Ma si potrebbero decine di altri nomi, perché gran parte dei grandi romanzieri dell’ottocento e del novecento mi sembrano avere in comune - che propendano verso il dominio della ‘realtà’ o verso quello della ‘finzione’ -* proprio questa ‘capacità di sintesi’, che a volte diventa ‘capacità di anticipazione’, riguardo a saperi che esulano dal campo letterario.
Al polo opposto vedo il romanzo popolare, e la sua versione più recente, il romanzo midcult. Questi generi potrebbero essere definiti, sempre cercando di allargare il campo di analisi rispetto a un’ottica prettamente letteraria, come delle forme romanzesche che accettano acriticamente (in maggiore o minore misura) i saperi consolidati, che rinunciano a sintetizzarli/incrociarli e a sperimentare nuovi spazi, che percorrono vie già tracciate e quindi obsolete. Che traggono le loro istanze, invece che da un’elaborazione originale, dalla cultura media, dallo spirito del tempo.
Sia il romanzo nella sua espressione più ambiziosa, che il romanzo popolare o midcult, di fatto sono in inevitabile dialogo con i saperi dell’epoca che li ha visti nascere. La differenza è che nei secondi il dialogo è meno intelligente, tende in maggiore o minore misura, e consciamente o inconsciamente, all’accettazione acritica, alla parodia involontaria. Prendiamo come esempio di romanzo contemporaneo il mio Anatomia della battaglia (un figlio con un passato di terrorista di sinistra che assiste alla morte del padre che è stato fascista) e poniamoci il problema se vale qualcosa o meno (naturalmente non sta a me rispondere). È evidente che gli stessi elementi dell’intreccio sono l’oggetto anche di numerose discipline, e di ricchi filoni giornalistici, che si occupano, con approcci diversi, di quelle stesse tematiche. E se scendiamo ancora più nel dettaglio, i singoli attributi dei due personaggi (a cominciare dalla simbologia dei singoli ingredienti dell’aspetto somatico, quali il colore dei capelli e degli occhi, e dal linguaggio del corpo…) sono repertoriati e analizzati da fiorenti filoni specialistici. E naturalmente la lingua stessa, ed è forse il punto più importante, potrebbe portarsi dietro la zavorra delle lingue e dei gerghi dei saperi specialistici. Ebbene, Anatomia della battaglia può valere qualcosa solo se aggiunge qualcosa a questi saperi (se li giustappone, li mette in corto circuito, li stravolge, ne mostra i limiti e/o le recondite implicazioni, li smaschera, li sbeffeggia…), e se la lingua è diversa, è originale.
L’idea che abbiamo della letteratura, anch’essa intrisa di influenze tardosettecentesche e romantiche, nonostante la parentesi strutturalista, tende a farci considerare il testo letterario come un oggetto unico e insostituibile, separato dai suoi omologhi, e frutto della fantasia, o del genio, del dato autore, e in dialogo in primo luogo con la tradizione letteraria che lo precede. Faremmo forse meglio a prestare più attenzione da una parte a tutti gli elementi - provenienti dalle più diverse discipline o comunque in dialogo, magari per via anche molto traverse, con esse - che sono sottesi nel testo, e dall’altra ai punti in comune, alle risposte a stesse difficoltà e/o problemi in relazione a questi stessi rami del sapere. Tali relazioni, più facili appunto da cogliere negli autori che hanno posto al centro della loro opera “la realtà” e/o la storia, sono in realtà presenti anche negli scrittori che hanno imboccato le via della “finzione”, e/o del fantastico. Siamo per esempio abituati a considerare il Don Quijote opera di finzione per eccellenza, intendendo per finzione il libero e leggiadro corso dell’immaginazione, e così facendo stravolgiamo completamente la poetica di Cervantes, elaborata a partire da e in rapporto strettissimo con la riflessione filosofica e estetica della seconda metà del cinquecento spagnolo (in particolare l’empirismo di Vives), e che non prevede in alcun modo un occultamento/deformazione della storia.* E anzi, proprio in questo nuovo spazio che non è né storia né poesia (che è nello stesso tempo storia e poesia), con il Don Quijote il romanzo imbocca la strada maestra che percorrerà nei secoli seguenti.


6. La mia farraginosa ricerca di materie prime

Quando comincio a scrivere, a scrivere nel vero senso della parola, quando cioè le macchine escavatrici nei cantieri del mio testo cominciano a incidere i segni dei loro denti nella terra, mi accorgo di solito che la documentazione che ho accumulato e consultato non mi serve a niente. O meglio, mi accorgo che questa costituisce una base di fondo, una base certo indispensabile, ma incompletissima e troppo poco approfondita. Quello che mi serve in quel momento, per portare avanti la storia che si sta delineando nella mia testa, per alimentare i miei cantieri, è ben altro. Mi accorgo con spavento che i miei cantieri sono bloccati, che non posso più scrivere una linea, se non trovo subito i documenti che mi servono.
E allora comincia un’angosciata e farraginosa ricerca di documenti, una lotta spossante, che affianca la scrittura vera e propria, che dura praticamente fino a quando il testo non è finito (solo nelle ultimissime fasi le cose migliorano un poco). In questa ricerca mi sembra sempre di essere in ritardo, di non avere abbastanza tempo, di essere irrimediabilmente impreparato. Mi sembra di documentarmi male e con superficialità, mi sembra che avrei dovuto cominciare prima, studiare e riflettere con molta più serietà prima di cominciare a scrivere. Mi sembra che la mia scrittura sarebbe nutrita in modo molto più sostanzioso, che sarebbe molto migliore, se mi fossi preso per tempo, se invece di correre casualmente da un testo all’altro avessi fatto le cose con un solido metodo. Mi sembra di essere un avvoltoio che pasteggia un po’ qui e un po’ lì, di essere un impostore, di fare un uso improprio dei materiali che saccheggio senza conoscerli a fondo.
La realtà è che non avrei potuto prepararmi prima, per il semplice fatto che - come mi succede sempre - non avevo la minima idea di dove il testo sarebbe andato a parare. In Anatomia della battaglia, per esempio, accingendomi alla descrizione dell’agonia di mio padre, che inizialmente doveva essere il solo e unico soggetto del testo, è saltato fuori il fatto che mio padre era stato fascista, e repubblichino. E quindi mi sono ritrovato a studiare in quattro e quattr’otto la storia del fascismo e della cultura fascista, e della Repubblica di Salò, delle quali avevo solo qualche vaga e superficiale nozione. Decine di testi storici di base, di testi storici più specifici, di saggi, di lavori vari di psicologia e di psicanalisi che mi permettessero di capire meglio l’estrema destra, di scritti letterari, di scritti autobiografici e di diari. Nel frattempo però nel testo ero saltato fuori anch’io, che nei piani iniziali non ero minimamente previsto, e il mio coinvolgimento nella sinistra extraparlamentare. E quindi ho cominciato a documentarmi anche sugli anni settanta, che conoscevo quasi solo esclusivamente attraverso la mia esperienza personale e tramite la narrativa.
Poi però, grazie al rapporto tra questo mio padre e questo io, che ormai non erano più mio padre e io, ma due personaggi letterari, i quali per certi versi facevano un po’ quello che volevano loro, è venuto fuori il legame molto stretto tra il periodo finale del fascismo e gli anni settanta. Questa relazione, che all’inizio era solo una tenue intuizione, come un minuscolo frammento archeologico saltato fuori mentre una rumorosa macchina scavava nel cantiere, grazie alle affannose ricerche di documenti di cui sopra, prendeva sempre più corpo e sostanza, diventava una certezza cerebrale, diventava soprattutto solido e valido (ai miei occhi) testo scritto. Nuovi frammenti della preziosa (ai miei occhi) statua andavano via-via completandosi uno con l’altro, e il tutto assurgeva allo statuto di tesi centrale - naturalmente incastonata e in dialogo con altre tesi - del romanzo.
Ma appunto la frustrata (in quanto non adeguatamente nutrita, ai miei occhi) scrittura e la farraginosa documentazione procedevano di pari passo, nel senso che i sempre nuovi dubbi che nascevano nella prima trovavano risposta nella seconda, e che i preziosi elementi che la seconda mi forniva davano sempre nuova prolifica materia alla prima. Io avrei voluto che la documentazione precedesse la scrittura, e invece nella realtà dei fatti le due attività convivevano e si nutrivano a vicenda, come una litigiosa ma indissolubile vecchia e insoddisfatta coppia. La prima sarebbe andata incontro a inarrestabile deperimento, senza la seconda, e la seconda si sarebbe miseramente arenata, senza la prima.
L’esempio che ho fatto illustra qualcosa che mi succede appunto sempre, anche quando i temi che affronto mi sono ben più vicini del fascismo e della storia italiana del novecento, quando per così dire mi muovo in acque amiche. Tale impasse si potrebbe riassumere in questo modo: i miei testi letterari si nutrono di documenti extra-letterari, non possono vedere la luce senza tale nutrimento, ma questo apporto di materia prima, di carattere estremamente specifico e non prevedibile a priori, può essere fornito solo da una ricerca di documenti che si svolge parallelamente alla scrittura vera e propria, che la segue passo a passo, mantenendo dei rapporti strettissimi con essa, asservendosi alle sue esigenze. E tale ricorso a fonti specialistiche ha più i caratteri di un saccheggio (non mira alla completezza, ed è dettato in fondo dall’intuizione, concentrandosi utiliristicamente sugli aspetti che possono essere più benefici per il testo, tralasciandone altri che da un punto di vista oggettivo - restando cioè nella logica della disciplina - sono più importanti e più essenziali), che di uno studio sistematico, non ha in fondo niente ha che fare con quest’ultimo.
Per molto tempo ho cercato di correggermi, di far precedere la documentazione alla scrittura, e di essere più rigoroso nella prima. Poi ho capito che è inevitabile che le due attività siano inseparabili, e che anche la ricerca dei documenti fa parte della scrittura. Ho capito che la ricerca dei documenti che mi servono per scrivere i miei testi non è un’attività freddamente cerebrale che segue la logica e la dinamica dell’apprendimento accademico, non mira a una asettica esaustività. È quindi qualcosa di molto diverso dalle mie ricerche bibliografiche quando mi accingo a scrivere un saggio scientifico, o dall’attività di uno storico che raccoglie il materiale per scrivere un saggio storico. È dettata passo a passo dalla scrittura, ha senso solo come supporto ‘in presa diretta’ a quest’ultima. La sua farraginosità e la sua incompletezza non sono quindi dei caratteri accessori e evitabili, dovuti al mio modo disordinato di lavorare, ma costituiscono un suo attributo costitutivo e essenziale, che riflette l’esigenza di adattarsi all’aleatorietà e alla natura intuitiva e imprevedibile (‘creativa’) della scrittura.
Mi sono rassegnato, e devo confessare che al contempo ho constatato che molti scrittori che non apprezzo fanno precedere la fase della documentazione a quella della scrittura vera e propria, e fanno in modo che la prima piloti la seconda. Il coltissimo Umberto Eco può secondo me essere preso come un esempio paradigmatico di questo modo di procedere nel quale la documentazione precede e domina incontrastata sulla scrittura. Ne derivano dei testi nei quali sono reperibili, se la cultura del lettore lo permette, tutti gli elementi ricavati dalle fonti utilizzate, dove tutto rimane gelidamente e desolatamente cerebrale, dove la lingua non ha alcun interesse, dove l’unica modalità di fruizione possibile sembra essere appunto il rinvenimento dei rimandi e la valutazione del grado di difficoltà di tale operazione. Dove non c’è - nonostante l’autore si rifaccia esplicitamente e si consideri un discendente di grandi scrittori del passato - nulla di interessante, nulla di nuovo.


7. Le materie prime di Flaubert

Mi ha sempre colpito lo spossante e maniacale accanimento di Flaubert nel procacciarsi i documenti e le informazioni su cui basava i suoi testi, per verificare ogni infimo dettaglio. Mi è sempre sembrato che la purezza cristallina della frase di Flaubert, la sua solida e elegantissima leggerezza, nulla avesse a che fare con la testarda e in fondo assai prosaica ricerca documentaria che ci stava dietro. Mi sembrava che il genio smisurato di Flaubert avrebbe benissimo potuto produrre quelle stesse frasi perfette anche permettendosi un grado più o meno grande di approssimazione per quanto riguarda la veridicità dei singoli e in fondo non sempre significativi (agli occhi del lettore del ventunesimo secolo che sono io) dettagli, anche se Flaubert se li fosse inventati di sana pianta. Se cioè avesse privilegiato la finzione rispetto alla documentazione.
Ma probabilmente, alla luce della mia stessa esperienza di scrittura, e delle considerazioni sopra esposte, mi sbagliavo, probabilmente anche quel passaggio era fondamentale, anche in quell’aspetto della scrittura Flaubert aveva bisogno del rigore che sfoderava nell’elaborazione dell’infinità di successive varianti per le quali come sappiamo passavano i suoi testi. Ora constato che anche per il gradissimo Flaubert la documentazione non precedeva la scrittura del testo, ma andava di pari passo, seguiva le necessità di quest’ultima, e aveva come unico fine l’alimentazione della scrittura stessa, senza alcuna velleità dominatrice. Per lui il testo romanzesco era un dialogo aperto con i testi romanzeschi che lo precedevano, ma anche con i saperi, anche tecnici, anche prosaici, della sua epoca.
Nella nozione corrente di scrittura, che è appunto irrimediabilmente marezzata di venature romantiche, noi comprendiamo senza sforzo alcuno le esperienze di vita dello scrivente (come del resto è evidente quando diciamo «i poeti maledetti», «gli scapigliati», «la beat generation», «lo scrittore praghese»…), ma facciamo molta più fatica a includere lo sforzo bruto, il lavoro di Flaubert per procurarsi le proprie materie prime e per organizzarle. Ci sembra che questa attività di bassa lega e poco nobile nulla abbia a che fare con la sua capacità di ammaestrare e rendere docili le parole e le frasi, rendendo ognuna di queste ultime una sequenza di impareggiabili versi. Ci appare come un’inevitabile bisogna, una condizione preliminare per l’apertura dei suoi magici cantieri. Quando invece costituisce forse l’essenza, o comunque il minimo comune denominatore - anche se spesso è seppellito nel testo, e non lascia trasparire che qualche labile traccia - di quella costellazione di forme letterarie che chiamiamo romanzo.

lunedì 10 marzo 2008

Da Subaugusta a ponte mammolo


Non ci ho pensato mentre scendevo...Cos'è adesso questa sensazione di morticella in questo sotterraneo ctonio che si chiama metro...perchè non ci ho pensato mentre scendevo...
Dovevo fare in fretta...guadagnare venti minuti di vita a casa...e li pago qui...in questo flusso di carne che s'affonda in terra...la luce, la penombra, il nero, il neon. Sale una musica lontana onnipresente, fosse il tango più selvaggio, lo perdo dalle orecchie, mi sfugge come acqua, nera ...Occhio e mente si concentrano sullo stretto, chiuso, serrato, fermo. Sento di perdermi, svanire.
Allora scatta un cobra dentro che cinghia. Una iniezione di forza interna m'attraversa. Lo scatto di reazione a questo soffocare, seppure irresisitibile, lo rivolgo verso di me. Non devo pensare alla fuga...devo...fuga...non pensare alla fuga. Alla fuga. Adesso è panico silenzioso, rimango immobile come un'atomo, tempo, spazio, energia in un punto compresso, mentre il tempo stesso mi dà la forza di resistere.
Esco dal tunnel dentro me dopo infinito viaggio, non è passato che un secondo, pensando che ho già resistito e posso farcela ancora. Mi guardo allora intorno, più sicuro, ma smarrito dal ritorno fuori. Penso ancora: fuga. Non pensare; è tutto così normale, vedi gli altri come fanno? Vedi tutti gli altri bravi bambini, Ecco, ecco, m'aggrappo ad un video, così domestico, così familiare. Non superare la linea gialla. Ma allora questa fottuta fretta, questo essere spinti da una massa di zombie senza occhi, che non guarda...?
Arriva l'aria finta spinta dallo scatolo di metallo, l'alito già respirato del tubo mi sveglia. Si entra per inerzia nel suo ventre, un pò spinti da un flusso, un pò scavalcati da singoli rivoli di fretta che s'insinuano, prima di lasciare scendere,ansiosi di vincere anche qui. Si resta in piedi aggrappati al ferro, a pugno chiuso. Il nero dei vetri scorre come specchio e consente di avere occhi a tutta la metro, la varietà degli uomini che ci fa tali, che ci salva. Per fortuna uno zingaro arriva con la fisarmonica.Viene dal vagone precedente saltando da uno all'altro ogni fermata. Ha odore animale. Suona senza sostenersi e ti chiedi come fa a restare sospeso... Ha trovato una melodia eterna e la suona senza tecnica, ma come se il sudore e l'abitudine della ripetizione l'avessero levigata. Gioca con le gambe come un surfista di metro, il corpo indietro, anni d'esperienza, il bagatto, l'infinita adattabilità dell'animale uomo quando ha fame..."Macchè fame, quando è pigro e non vuole fare niente" dice uno accanto; quando non si vuole obbligare e diventare Sisifo...
Eppure cade! La macchina l'ha fottuto, una frenata più imprevista del previsto. Ha rotolato per il lercio pavimento, come un cencio: un sorriso si sparge sui volti tirati e pronti a non dare, si rompe l'indifferenza. Scatta una romanità nascosta in un anvedi! E non è più odiato parassita, ma sfigato clown del mercoledì e il caso fa aprire mani e menti. Il tevere frattanto rompe il tubo infero. il fiume un tempo biondo e adesso tinto del piombo cinereo del cielo. Un ponte lega cielo e terra e risorge alla luce la metro: irrompe un sole autunnale come l'acqua metallica. Un binario s'interna nel quartiere, squinternato s'assesta, assetto malridotto. Dura pochi secondi e poi scendo alla prossima. Adesso è tutto diverso: è l'uscita dal lunapark. Si esce. All'aria.

venerdì 7 marzo 2008

Fisio-Logica










Non so se Francesco fosse tranquillo o preso da qualche ordinaria preoccupazione quando il tonfo secco che arrivava dal balcone della cucina lo fece sobbalzare dalla sedia davanti al computer. Nonostante la televisione ad alto volume l’aveva sentito distintamente. Secco; incredibilmente simile al rumore che tanti anni prima il ragazzo che tutte le mattine suonava la chitarra elettrica aveva fatto precipitando dal quinto piano accanto alla finestra dell’aula in cui Francesco sedeva annoiato.
Un altro suicida? Proprio sul suo balcone? Francesco ebbe una rapida espressione stizzita ma in realtà era impaurito. A passo veloce si avvicinò alla finestra, poi lentamente la aprì. L’afa lo attraversò simile allo spirito caldo di un condannato a morte ed andò subito ad amoreggiare con il fresco secco dell’aria condizionata.
Il balcone era inondato di sangue e una gigantesca massa viva pulsava lentamente. Era alta quanto Francesco ma molto, molto più grande. Sembrava, anzi, era un cuore. Il cuore di un dinosauro, pensò Francesco.
Chiamare la polizia?
Accorrette c’è un cuore gigante che agonizza sul mio balcone.
Improponibile. Gli sbirri non capiscono manco la dinamica di un tamponamento a semaforo rosso. Era un lavoro per l’Uomo Ragno o Batman, al limite volendo risparmiare anche per Dylan Dog.

- Cazzo aiutami…

Francesco si guardò attorno. Non poteva essere vero.

- Fa’ qualcosa… questa situazione è insostenibile.

Il cuore si era messo pure a parlare adesso.

- Ti muovi? - disse
- …e che devo fare? – balbettò Francesco
- Non lo so ma… fai qualcosa. Tirami fuori da ‘sto casino.
- Io? …ma se non ho capito ancora cos’è successo…
- Non dirlo a me – ribattè il cuore arrogante

Francesco lo fece rotolare faticosamente dentro casa e chiuse la finestra.

- Va già meglio – disse il cuore – almeno qui c’è l’aria condizionata. Stronzo.
- Ah pure stronzo adesso?
- Eh sì… lo ribadisco. Stronzo. Guarda cos’hai combinato?

Francesco cominciava ad innervosirsi. Già la situazione era paradossale e poi, ammesso che ne fosse venuto fuori con un’idea geniale, a chi l’avrebbe potuto raccontare? Chi ci avrebbe creduto senza prove… …la macchina fotografica.
Di corsa l’andò a prendere dalla cassettiera del salone. E poi …click…

- Eh si. Adesso lo stronzo vuole pure un trofeo… sai dove te la devi mettere quella foto di merda?
- Tu non dovresti parlare – rispose secco Francesco – perché i cuori non parlano, e, a parte questo, il tuo non è proprio il lessico adatto ad un cuore. E che è… ?
- Ma sentilo – lo canzonò il cuore – e che dovrei dire? Che fai tu luna in ciel dimmi che fai? La luna si fa i cazzi suoi. Fa il suo mestiere se nessuno la disturba… anch’io avrei preferito fare bum bum tutta la vita… guarda… non mi far parlare va….
- No. No. Parla… vediamo che c’hai da dire? Ti ho pure soccorso e mi hai sporcato tutto il pavimento di sangue… mi dici che c’entro io con i problemi tuoi?

Il cuore pulsava sempre più velocemente. Si stava innervosendo, era chiaro. Ma Francesco, perso lo stupore iniziale era così infastidito da quel cuore ingrato e pure cafone che non badava più neanche all’assurdità di essere nella sua camera a fare lite con quel mostro.

- Ah devo parlare? E se devo parlare parlo. Io non guardo in faccia a nessuno. Da dove dobbiamo cominciare?
- Comincia da dove vuoi… tanto io c’ho la coscienza a posto.
- Meh allora siediti che la storia è lunga. Mica finiamo per mò. Lo tieni un pomeriggio sano sano?
- Vai parla… tanto non stavo facendo niente d’importante…
- Ah. Niente d’importante eh? Non stavi scrivendo un e-mail, tu?

Come faceva a saperlo? Una e-mail lunga, sofferta che forse non avrebbe mai spedito. Francesco minimizzò

- E allora? Si! Stavo scrivendo una e-mail…
- Per la tipa che sta a Pisa e che non vedrai mai più e che non ti pensa nemmeno.
- Saranno anche cazzi miei – il cuore aveva ragione e Francesco cominciava ad essere incazzato nero.
- No, se permetti sono pure e soprattutto cazzi miei. Come quando alle medie ti sei innamorato di quella più bella di tutte che se la faceva solo coi tipi più grandi. Che cosa pretendevi? Ma per piacere. Non esistevi per lei. E poi la ragazzina della spiaggia; ne vogliamo parlare? Ti prendeva solo in giro… come hai fatto a non capirlo? E la commessa della libreria che ti filava solo per farti spendere soldi, e la cameriera della pizzeria?… stessa storia. E io lì che facevo veleno. E pensavo… ma allora questo è proprio coglione …e vogliamo parlarne o no della figlia di Zia Menuccia? Cazzo, Francesco, tua cugina.
- Ma… tu… -
- Eh… ma io… ma io già non ne potevo più da un casino di tempo. Perché, quando ti sei trovato la fidanzata a Gioia del Colle e facevi avanti e dietro con la macchina e lei non si faceva trovare? Pensi che per me sia stato facile. Oh. Poi uno arriva un momento che non ce la fa più.
- Senti ma…
- Noooooo… mò ho cominciato a parlare e mi fai parlare…. Comodo così. Noooo… mi devi stare a sentire adesso e ti devi stare pure zitto…

Francesco indietreggiò e si sedette sul letto. Stava sudando. Sentiva battere il cuore dentro e, forse questa era la sua unica consolazione. Almeno un cuore in petto ce l’aveva ancora, soltanto che batteva perfettamente in sincrono con quel mostro che aveva davanti e che ormai era un fiume in piena di sangue e di parole…

- …e quella cretinetta mezza punkabbestia che passava le serate buttata a terra col cane? Meh… quello è stato il massimo. Ti sei innamorato a botte di tavernello e a me… doppio danno anzi, triplo con tutte le canne e le sigarette che vi facevate. Oooooh che sono fatto di carne e muscoli pure io! E come ti piaceva stare male…. mado’ povero figlio incompreso ti buttavi sul divano e piangevi… per chi poi? …per un paio di occhioni dolci …ma basta. E che combini adesso… vogliamo parlarne? …pure di quest’altra ti dovevi innamorare. Si, va beh, lo ammetto ha fascino, è carina, sarebbe perfetta se non fosse fidanzata. Tu non sei uno che ha i coglioni di far innamorare una già fidanzata… porcaccia miseria… impara ad accontentarti.

L’enorme cuore zittì e riprese a battere più regolarmente in sincrono, naturalmente, con quello di Francesco. Passarono alcuni minuti di silenzio. Il sangue cominciava ad impregnare le tende, il lenzuolo del letto, le scarpe di tela e i pantaloni di Francesco. Il ragazzo si alzò, fece qualche passo, poi si girò verso il cuore. Lo guardò fisso. Adesso era una questione di principio e, soprattutto di orgoglio. Alzò il dito a sottolineare retoricamente l’importanza di ciò che stava per dire, poi con calma…

- …e allora? Come la mettiamo? Pretendi che io faccia solo ciò che è razionale? Tu dovresti saperlo meglio di me come funzionano queste cose… io le ho amate tutte e non mi è mai importato di essere ricambiato. Anche per un sola settimana, per una sola sera, ma le ho amate… fammi un piacere: torna da dove sei venuto e fai il tuo mestiere che ci penso io a come innamorarmi… che ti credi? …io non sono come dici tu… io ci penso alle cose… lo so usare il cervello io…

…un altro tonfo sul balcone, improvviso… poi una voce flebile….

- …aiuto, …aiuto!