giovedì 17 aprile 2008

Ubahn parte IV, il dolore del ferro...


A volte, nelle comunque perenni giornate invernali, l’acqua cade tagliando i volti. Violenti tagli, a scavare solchi sulla pelle ammorbidita dall’umido, senza sangue. A volte le vetture si fermano, senza riprendere. L’acqua si schianta sui fili ad alta tensione, provocando lampi che che una dignità simil-umana aveva fino ad allora con tenerezza risparmiato, dando seguito a tuoni strozzati, dai toni altissimi, l’ultima resistenza dei cavi dell’alta tensione.

Ci sono tratte che corrono dritte senza mai curvare, come se tentassero un meritato suicidio; altre invece, quelle che dal centro portano ai ghetti, compiono lunghi giri e percorsi a zig-zag, quasi a voler cullare i figli violentemente portati nel proprio grembo in un gesto di vergognosa quanto necessaria pietà. Ci sono linee poi che attraversano il fiume, per sparire là, in quelle zone che le agenzie immobiliari fingono di non conoscere, dove non si parlano lingue umane. E’ qui che le vetture procedono sottoterra, come a voler sfuggire sdegnosamente a quella melma grigia e unta che cola dal cemento qualche metro più in su.

Nei ghetti le case tendono ad abbassarsi sempre di più, a manifestare un senso di pudore e indifendibile dignità, a nascondersi, fino poi a scomparire per la vergogna nei boschi, appena fuori dalla città. Ai palazzi alti del centro fanno da contraltare gli alveari di 3-4 piani delle periferie, senza balconi né slancio alcuno, grigi per confondersi con la nebbia, per non essere scoperti nuovamente, dopo essere già stati abbandonati.

Le vetture che solcano il centro sono boutique di spensieratezza, in dotazione forse da qualche anno, ma già in procinto di passare di moda. Sono luoghi da cui duole separarsi, e da cui è lecito lasciarsi ingannare. Fuori sono di color rosso fuoco, di un fuoco spento dal tempo. Non so se per un gesto di dignità o di dimenticanza, qui non si trova pubblicità di alcun tipo; forse per rispetto o più probabilmente per assenza di considerazione alcuna per forme di esistenza secondaria, il fuoco spento delle vetture non è intervallato da altri colori, o da forme geometricamente disposte per attirare l’attenzione di acquirenti ditratti dal sonno, sia esso quello mattutino, sia esso quello serale, quello più insperato di chi ha perso anche quel minimale slancio del giorno appena iniziato.

Se si percorrono le linee che dal centro portano lontano, verso i boschi del pudore, il progressivo scavarsi dei solchi facciali di chi è a terra segnala l’ingresso negli Stadteil di periferia. Le attività commerciali seguono lo stesso processo di invecchiamento; i megacentri commerciali del centro lasciano il posto ai megastore di materassi economici e ai chioschi per sigarette e giornali, rigorosamente turchi.

Esistono delle fermate nel vuoto, dove non vi sono alveari in cui vivere né chioschi da impollinare. Nessuno sale, nessuno scende. Ma la vettura si ferma, nel buio mattutino di uno dei boschi periferici, o nella sera silenziosa e gelida di un’ansa deserta del Reno, circondata da depositi industriali dai cui recinti fuoriescono come lance enormi pezzi di lamiera rossa.

4 commenti:

Cristò ha detto...

Come sempre un'ottima descrizione... pulsante.
In questo Ubahn si comincia a sentire il bisogno di una storia... in tutta questa ferraglia veloce e violenta cerco una persona, un volto, una ruga che abbia da raccontare il perché di tutti questi treni cittadini.
Una storia. Michele... racconta.

william ha detto...

questa è poesia, michele, forse ha ragione cristò, su questo tappeto cittadino si deve muovere qualcosa che si compromette a dire un suo senso, provarci...

Michele ha detto...

Non so se avro' mai il tempo di scrivere un racconto che abbia come sfondo quello descritto da questo diario. Non so se avro' la forza mentale per rompere questa barriere di dolore che urta sulle lamiere della metro...

8ulls3y3 ha detto...

A me piace proprio per la mancanza del fattore umano.
E' pieno di personaggi, ogni cosa ha un'anima e dei sentimenti (quasi sempre feriti). Il metallo e gli scenari industriali hanno sempre esercitato un gran fascino su di me, e ogni volta che ho cercato di raccontarli la presenza umana mi è sembrata un fattore di disturbo, come dire... una presenza indiscreta.
Insomma, per i miei gusti, è perfetto così.