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sabato 12 luglio 2008

Il Castello Bianco...

Cari amici,

Volevo darvi un suggerimento per una lettura assieme ed una relativa discussione sulle tecniche di narrazione.

Leggete il "Castello Bianco" di Orhan Pamuk.

Ditemi che ne pensate...

giovedì 17 aprile 2008

Ubahn parte IV, il dolore del ferro...


A volte, nelle comunque perenni giornate invernali, l’acqua cade tagliando i volti. Violenti tagli, a scavare solchi sulla pelle ammorbidita dall’umido, senza sangue. A volte le vetture si fermano, senza riprendere. L’acqua si schianta sui fili ad alta tensione, provocando lampi che che una dignità simil-umana aveva fino ad allora con tenerezza risparmiato, dando seguito a tuoni strozzati, dai toni altissimi, l’ultima resistenza dei cavi dell’alta tensione.

Ci sono tratte che corrono dritte senza mai curvare, come se tentassero un meritato suicidio; altre invece, quelle che dal centro portano ai ghetti, compiono lunghi giri e percorsi a zig-zag, quasi a voler cullare i figli violentemente portati nel proprio grembo in un gesto di vergognosa quanto necessaria pietà. Ci sono linee poi che attraversano il fiume, per sparire là, in quelle zone che le agenzie immobiliari fingono di non conoscere, dove non si parlano lingue umane. E’ qui che le vetture procedono sottoterra, come a voler sfuggire sdegnosamente a quella melma grigia e unta che cola dal cemento qualche metro più in su.

Nei ghetti le case tendono ad abbassarsi sempre di più, a manifestare un senso di pudore e indifendibile dignità, a nascondersi, fino poi a scomparire per la vergogna nei boschi, appena fuori dalla città. Ai palazzi alti del centro fanno da contraltare gli alveari di 3-4 piani delle periferie, senza balconi né slancio alcuno, grigi per confondersi con la nebbia, per non essere scoperti nuovamente, dopo essere già stati abbandonati.

Le vetture che solcano il centro sono boutique di spensieratezza, in dotazione forse da qualche anno, ma già in procinto di passare di moda. Sono luoghi da cui duole separarsi, e da cui è lecito lasciarsi ingannare. Fuori sono di color rosso fuoco, di un fuoco spento dal tempo. Non so se per un gesto di dignità o di dimenticanza, qui non si trova pubblicità di alcun tipo; forse per rispetto o più probabilmente per assenza di considerazione alcuna per forme di esistenza secondaria, il fuoco spento delle vetture non è intervallato da altri colori, o da forme geometricamente disposte per attirare l’attenzione di acquirenti ditratti dal sonno, sia esso quello mattutino, sia esso quello serale, quello più insperato di chi ha perso anche quel minimale slancio del giorno appena iniziato.

Se si percorrono le linee che dal centro portano lontano, verso i boschi del pudore, il progressivo scavarsi dei solchi facciali di chi è a terra segnala l’ingresso negli Stadteil di periferia. Le attività commerciali seguono lo stesso processo di invecchiamento; i megacentri commerciali del centro lasciano il posto ai megastore di materassi economici e ai chioschi per sigarette e giornali, rigorosamente turchi.

Esistono delle fermate nel vuoto, dove non vi sono alveari in cui vivere né chioschi da impollinare. Nessuno sale, nessuno scende. Ma la vettura si ferma, nel buio mattutino di uno dei boschi periferici, o nella sera silenziosa e gelida di un’ansa deserta del Reno, circondata da depositi industriali dai cui recinti fuoriescono come lance enormi pezzi di lamiera rossa.

martedì 26 febbraio 2008

Ubahn, parte III

Nelle zone centrali, vicino al duomo afflitto dal tempo, dove ancora si sentono le sirene della contraerea, si viene accolti da fermate alto-borghesi, luride di splendore a illuminare ciò che resta delle pellicce sintetiche. Sulle pareti, delle foto d’epoca, con una data: 1945. Nell’immagine il nulla. Appelhofenplatz vuol dire paura; una fermata bianca, dove la luce non dovrebbe splendere, costruita per ricordare come il paradiso terrorizzi i passggeri. Appelhofenplatz non si sostanzia in niente; porta con sé l’ignominia di quell’immagine, 1945, e poi il nulla.
Ma quando si esce dal centro, verso il ghetto dove vivo, il treno inizia ad urlare di un dolore lancinante, che raschia sui binari vecchi e consunti e non va più via, per finire a sera nelle pentole a pressione piccolo-borghesi, o nei minifrigo stracolmi degli immigrati. Qui l’irrompere dei timori passeggeri si raddolcisce nel tanfo dei mcdonalds, per poi perdersi disperato nei volti consumati e scavati di 40 dannati sotto l’acqua, prima di acquietarsi sopra le vetture unte e arrugginite. Appelhofenplatz non esiste, come non esiste ciò che per essa transita. Una serena luce annuncia una venuta a vuoto, due minuti di attesa, il dolce inganno di una rassicurazione, il tenero abbraccio di una madre al figlio ripudiato.

Ma Venloerstrasse esiste, come esiste l’urlo che scheggia le case della lego, e dilania i tessuti di cappotti fuori taglia, senza bisogno di gridare. Appelhofenplatz non esiste. Una voce che non esiste annuncia con dolcezza il blocco della circolazione, per cause lontane, l’assenza di pulsazioni di chi non atteso che le vetture si fermassero per ascoltarne l’urlo che da sotto ne promana.
Venloerstrasse esiste. A segnarne l’esistenza quel mare rosso a 20 metri dalla fermata, la salsedine coagulata, così sia. “Da simmer dabei! Dat is prima! Viva Colonia! Wir lieben das Leben, die Liebe und die Lust, Wir glauben an den lieben Gott und hab'n noch immer Durst”.

lunedì 28 gennaio 2008

Ubahn, parte II

Il lettore mp3 si intreccia con la voce metallica, in maniera odiosa e indissolubile. Non sussiste possibilità alcuna di districare quel ferreo dolore da quanto emesso dalle cuffie. Cercare gli sguardi altrui diviene una speranza di salvezza. Si cerca qualcosa fuori.
Se poi i percorsi ferrati risultano poco noti, o se addirittura le immagine esterne non riescono ad armonizzarsi con la capacità visiva e con la memoria, come capita al sottoscritto, all’incredulità seguita all’irruzione della distonia si accompagna l’inquietudine. Non più linee di fuga verso l’esterno, a cercare ciò che famigliare non potrà mai diventare; ma anche l’inaspettato quanto ingrato compito di sondare l’umanità, di penetrare il nesso nascosto e segreto tra la signora anziana, lo studente, il tossico dipendente e l’immigrato turco. In quel nesso il mio momento, il mio ritagliarmi la mia porzione di spazio, la mia fermata.

Se queste linee di fuga fossero proiezioni parigine, probabilmente si dissolverebbero nel buio dei sotterranei, dove le vetture attraversano uno spazio inesistente, se non aldifuori del percorso severamente riportato sulle microscopiche mappe gratuite distribuite presso le biglietterie. Anche quello spazio è fittizio, perché non riporta nomi di strade, parchi e musei, ma solo approssimativamente 24 linee di colore diverso, 24 creazioni originali di non luoghi a procedere. A volte si viene allo scoperto, ma per poco, giusto il tempo di ricordarsi che tuttavia quello spazio un’esistenza la possiede, anche se non umana.

Ma le linee di fuga che mi attraversano ogni giorno a Colonia non si perdono nel buio. Si perché quei treni che si inabissano sottoterra, rispuntano sempre, rinnovati, per diventare tram, e per poi immergersi ancora. Lo spazio qui è quello seghettato di un pettine, alternato, tra il chiuso e l’aperto; solo che qui non si passa per capelli grassi e unti, ma tra i battiti veloci di ciglia nervose, come un fastidioso tic estivo.

domenica 13 gennaio 2008

Diario/racconto: Ubahn, ovvero, metropolitana...

Partirei io, in una sorta di sacrificio iniziatico. Posto un po' alla volta stralci di un diario/racconto di quanto accade quotidianamente nella città in cui mi trovo accidentalmente a vivere, ossia Colonia. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate...

Prima parte del diario a puntate, o racconto, chiamatelo come vi pare.
"A volte la metropolitana di Colonia manifesta curiose distonie, piccole metafore di come le cose vanno al di fuori dai vagoni. Si perché la voce che solitamente annuncia l'approssimarsi di questa o quella fermata spesso si fa silente, bloccandosi per poi ritornare a farsi sentire chiamando una fermata che ormai non c'è più. E'quella voce metallica di una persona mai nata, ma che se fosse esistita avrebbe il volto di una pallida propagatrice di infelicità, a dare sicurezza ai passeggeri. Perché anche se si conosce a memoria il tragitto quotidiano del proprio treno, quello che si prende tutti i giorni senza alternativa alcuna, è quella voce che si fa associare alle diverse fermate, e non le immagini al di fuori dal vetro. Queste infatti distraggono il passeggero, lo accudiscono dolcemente accompagnandolo nell'illusione di una tranquillità apparente, all'interno del treno, in contrasto con il moto disordinato osservabile all'esterno. Ma quella voce, quella voce rompe l'imitazione di un improbabile benessere mattutino, e rimanda direttamente a quel disordine, a quel rumore che aspetta tutti i passeggeri, prima o poi...
Ma quando si verifica quella distonia tra la voce metallica e la fermata cui effettivamente ci si approssima, allora tutto viene a cadere. Gli sguardi dei passeggeri, dapprima persi lungo linee di fuga esterne, ciascuno a costruirsi il grande inganno, iniziano a cercarsi ansiosamente, compiendo l'inatteso miracolo, l'urgenza di una comunione...
L'incredulità, l'irruzione serena di un timore, finanche il tiepido terrore dei passeggeri contingenti, quelli che quella linea non la frequentano spesso, e che di quella propagatrice di infelicità credono di necessitare. Gli immigrati turchi e le ricche signore anziane dalle improbabili buste della spesa, ricolme di niente, gli studenti in piedi e i tossico dipendenti, sposi assieme a condividere le doglie di uno spazio non previsto, inesistente. Lo spazio tra la fermata erroneamente annunciata e quella realmente approssimantesi. L'incertezza del non luogo, e poi il divorzio, e via gli sguardi nuovamente fuori, all'esterno, a cercar da soli un riferimento".