domenica 29 giugno 2008

Il pranzo era apparecchiato per quattro

Autore: Gigi

“Ti amo.
Ti amo davvero.
Ti amo da sempre. Infinitamente.
Non ricordo di aver mai nutrito un sentimento così profondo nei confronti di qualcuno.
E’ la cosa più bella che io riesca ad immaginare.
Il tuo volto è la scenografia del mio tempo, i miei giorni un presupposto per incontrarti ancora.
Il caso ci ha sorriso e per breve tempo ci ha anche voluti vicini.
Un ristorante d’estate, pranzare allo stesso tavolo. Io, te e poi non ricordo, forse due sedie vuote.
Più probabilmente due volti sconosciuti. Come i nostri.
Poi sguardi sfuggenti che s’incrociano.
Ti ho desiderata immediatamente e non ho smesso di farlo nemmeno per un istante.
Rivederti è l’unico desiderio che mi accompagna e cresce di giorno in giorno. Rivederti.
Ancora una volta, una sola.
La tua assenza mi sta distruggendo.
Non importa. Adesso scriverti è quel che devo.
Affidare il ricordo ad una parola appesa sul foglio di carta sciatta è tutto quello che mi resta. Un’immagine.
Destinata, forse, a smarrirsi insieme a tanti altri ricordi di cui non ho alcuna memoria.
Sospesa su..” ehm, quella cosa là dannazione che cos’era? Ah, si: una zoca!
STOOOP!
- No, no. No. Non ci siamo. Accidenti a te, ma che diavolo ti salta in mente hai già dimenticato le battute?
Non voglio esprimermi sull’interpretazione poi.. sei proprio scarso amico, la zoca usala per impiccarti!
- Mah, adesso non esageriamo è solo una prova infondo. Forse non era una zoca..
- Era un filo, non c’è nessuna zoca sul copione.
Di questo passo non farai molta strada.
L’attore è attore anche quando non c’è un pubblico che lo guarda.
L’attore non prova niente, vive.
- Ma io..
- Molto presto, prima di quanto credi, qualcuno verrà a conoscenza di questa storia..
Non so chi, potrebbe trattarsi di un perfetto idiota oppure una persona che merita il nostro rispetto.
Devi essere professionale.
Non senti il suo sguardo che ti accarezza sulla pelle come la mano discreta di chi è presente anche quando non c’è?
Se vuoi essere un attore devi interpretare ogni singolo istante, finché l’interpretazione non sarà la tua stessa vita!
- Chi è la tizia della lettera?
- La persona a cui scrivi non esiste, non è mai esistita. E’ frutto della tua immaginazione.
E’ la donna che cerchi ma non riesci a trovare.
Ad un passo dalla disperazione puoi solo scriverne per continuare a sperare che un giorno questo desiderio assomigli a qualcuno.
- Stiamo perdendo tempo, non riesco a concentrarmi. Come faccio se non c’è nessuno che mi osserva?
- C’è qualcuno che ci sta osservando..
- Ma non è reale!
- Fidati, è più reale di quanto pensi, più di me e te senza dubbio!
- Uffa che seccatura queste regole! Non potremmo cambiare qualcosina?
- Amore santo, non te la devi prendere con me. La vita è un gioco ed ogni gioco ha le sue regole. Oggi tu sei attore ed io regista.
Ti senti defraudato nell’anima perché non vuoi obbedire alle regole che io ti sto imponendo.
Ma ignori che io stesso sono soggetto a regole che non ho stabilito e ti dirò di più: a me non piacciono affatto!
Ma se tali regole non ci fossero, adesso non ci saremmo neanche noi due.
Hai afferrato il concetto, o no?
- Credo di aver capito.
Sono scosso, ho bisogno di una pausa. Riprendiamo fra dieci minuti?
- Impossibile. L’arte non riposa.
Sursum corda! Torna al tuo posto, si rifà dall’inizio.

venerdì 20 giugno 2008

Era Novembre quando cominciò


Era Novembre quando cominciò.
La vita in questo stanco mondo andava avanti come al solito, la gente si spintonava, si aggrediva, si umiliava per arrivare. Dove, ancora nessuno lo sapeva. O nessuno se ne curava.
D’un tratto, proprio quando erano tutti presi a maledire l’arrivo del freddo e delle piogge autunnali, qualcuno lo notò.
Si fermarono tutti, le orecchie tese, lo sguardo inquieto che balenava da un viso all’altro. Nessuno sapeva dire da quanto tempo ci fosse, come nessuno poteva dire di averlo sentito cominciare. A poco a poco tutti iniziarono a passarsi la voce. Da un angolo della terra all’altro, la gente si telefonava. In meno di una giornata i notiziari cominciarono a spargere le loro sciocche ipotesi, e fu il panico.
Ovunque nel globo, non c’era via di scampo. Le montagne risuonavano sorde come megalitiche corde di basso. Gli abissi ribollivano scossi da onde a bassa frequenza. Uccelli, bestiame, cani e gatti cominciarono a impazzire. A volte si lasciavano morire di fame, altre attaccavano le persone e i loro simili senza motivo.
L’Uomo non si comportò meglio, come al solito.
Da ogni parte le sette millenariste sembravano uscire dai loro nascondigli animate da una nuova folle spavalderia. Gli occhi lucidi come quelli delle vacche al macello, cominciarono a salmodiare i loro messaggi odiosi e terrificanti. Dovunque si tendessero le orecchie, la frase era sempre la stessa.
La Fine è giunta.
L’Ira di Dio, o chi per lui, si stava per abbattere sul mondo, piccola scoria meschina del creato.
La consapevolezza di essere alla fine condusse gli uomini alla pazzia. Mentre scienziati e fisici tentavano dalle platee televisive di accampare scuse pseudoscientifiche e consolatorie. Una risonanza dei campi elettromagnetici dei corpi celesti, una fascia di onde sonore impazzite, un’eco del Big Bang rimbalzata nel Vuoto muto dell’universo, alla ricerca di uno sfogo, di una falla nella legge della dinamica del suono.
Ma nessuno diede loro ascolto.
Passò poco tempo, e le radio e i televisori cominciarono a non funzionare. Dopo una settimana il suono era così potente e continuo che ogni vetro sulla terra esplose in schegge minuscole.
I governi collassarono, le società implosero.
Nulla ebbe più senso, l’isteria prese il posto del senso civico.
Un’orgia di sangue globale diede il benvenuto al nuovo padrone del mondo: Caos.
La popolazione mondiale fu falcidiata dai suoi stessi componenti, piccole pazze creature sanguinarie incapaci di reprimere i loro più osceni istinti.
Se mai fossero esistiti gli Dei degli uomini, in quei giorni distolsero lo sguardo inorriditi.
Al trascorrere del primo mese, i timpani degli esseri umani cominciarono a saltare. Ogni singolo uomo o donna lacerò l’aria con le sue grida di agonia mentre il sangue ruscellava dalle orecchie.
Nel giro di un’altra settimana, tutti i sopravvissuti furono sordi.
Presero a vagare tra le macerie del mondo, un mondo che fino a poche settimane prima era stendardo della loro grandezza, vessillo di una civiltà talmente avanzata da essersi quasi doppiata. La paranoia prese il posto dell’aggressività, nessuno si fidava più di niente e di nessuno. Ogni ombra poteva essere un altro assassino, qualsiasi rumore ormai, dal più potente frastuono al sottile fruscio di un felino, non si distingueva dal silenzio. Chiunque poteva strisciare alle spalle e piantare una lama lurida tra le scapole di un suo fratello.
Annebbiati dalla paura non riconobbero più tra loro gli amici, i fratelli, i compagni, ma solo i predatori.
Lentamente, come pecore sorde, i deboli furono immolati sull’immenso altare della pazzia e della disperazione.
La Terra fu così svuotata del novanta percento della sua popolazione.
I pochi viventi si trascinarono lenti e barcollanti verso una misera esistenza di automi perversi e dementi. Ovunque risuonavano i bassi lamenti gutturali dei morenti, o le tristi voci degli spiriti. Un mantra agghiacciante, un lungo, infinito gemito di morte.
Nessuno poté mai capire cosa fosse accaduto, nessuno seppe mai la verità.
Il Ronzio cessò dopo quasi sei mesi, giunto ad una tale potenza da spaccare in due le montagne.
Ma anche di questo, nessuno si accorse mai.

martedì 17 giugno 2008

terra di lavoro





















Treno e tavoliere nel silenzio s'amano
pur furiosa scorrendo la via del ferro
sul ventre fecondato da
sacro lavoro .
Il manto rosato da gemme di ciliegio
si spoglia pettinato in un vestito giallo irsuto,
morbido, pungente tappeto di pelle
che su un tappeto di pelle s'è intessuto...
dov'è sparito allora il polacco occhialuto?
dove cento e cento umani hanno perduto
la vita, nella piana sconfinata?
in quale masseria disabitata
la sua natura l'uomo s'è perduto?
per che viscera d'omicidio incallita
la carne loro il campo ha concimato?
chi ha violato la fragile dignità d'ospite
antica preziosa novità della vita,
ora inflazionata debolezza dell'acrobata,
funambolo del globo reticolato?
Il paradiso atteso t'ha venduto:
un pezzo solo di materia inerte
sei stato strumento vocale,
macchina parlante per difetto,
o per eccesso,
e il detto fuori luogo t'ha tradito.
Parola imparata nuova di rifiuto
o gesto ribelle all'italiano
colto padrone
creduto ingrato crack dell'ingranaggio:
macchina lui, che non ti vuole
tra gli uomini,
supremo tu tra noi nel linguaggio
della fame e del viaggio
ricordo comune di passaggio.
Macchina lui che segna sua la terra,
tagliandola, Caino e Romolo, con l'aratro.
Volti sul giornale di mille condòmini
signore e ragazzi, vestiti bene,
come ad una festa,
lost - ingoiati dalla terra o dal mare -
perduti per la processione del pomodoro sull'appennino:
mille scatole diverrà il rosso contadino,
ed io, idiota, l'idillio vedo ancora al finestrino,
dicendo il campo di grano divino.
Moloch allora sei, questo che diverrà
all'altrettanto sacro desco familiare
oggi il nostro pane quotidiano:
la nuova comunione di Moloch,
pizza rossa, pasta al sugo.

lunedì 16 giugno 2008

Gioco Oplepiano 01: Il pranzo era apparecchiato per quattro


“Vedi il cruscotto d’avanti ai tuoi occhi ragazzo? Aprilo e passami la bottiglia. Bada a non fare scherzi o le cose potrebbero mettersi male per te e la pollastrella!” disse quell’uomo venuto dal nulla mentre guidava la sua Eldorado decappottabile del ’72.
Si chiamava Cristo, o almeno così pareva avesse detto. Aveva occhi come piccoli cubetti di ghiaccio, i capelli neri e lunghi, la barba incolta, il sorriso innocente e puzzava di sangue raggrumato.
Leslie, seduto accanto a lui, a mani legate con una corda, esaudì la sua richiesta. Aprì. Dentro il cruscotto c’erano una bottiglia di Buffalo Trace ancora sigillata e una Revolver Colt piuttosto vecchia.
Leslie alla vista dell’arma da fuoco spalancò gli occhi.
Pensò di prenderla velocemente e premere il grilletto verso quella testa matta, “Non pensarci nemmeno piccolo figlio di puttana!” fece tagliente Cristo continuando a guardare l’orizzonte infuocato d’avanti a sè.
Il sole albeggiava sputato dalle colline ardenti del deserto, la radio brontolava Wind Song dei Black Merda, il whisky era quasi finito e l’auto sfrecciando, spariva nella nube di calore.

“Aaaaah! Eccoci qui signori, siamo arrivati!” strillò Cristo fermandosi vicino una piccola e abbandonata stazione di servizio perduta nel silenzio di Dio.
Era nauseante la puzza del fast food diroccato.
Saltò giù dalla Cadillac tenendo in mano il fucile a pompa che aveva tenuto fra le gambe durante il viaggio. Era ilare, aveva nello sguardo qualcosa di assurdamente innocente, come se tutto fosse ordinario. Come il gioco di un bambino.
Andò dritto verso il bagagliaio per aprirlo.
Scarlett aprì gli occhi a stento. Era un miracolo che fosse ancora viva. Sentiva dolore e formicolio su tutto il corpo, sangue e polvere, ovunque. Non riusciva a respirare. Tossì.
“Ok ragazza l’ora della pacchia è finita, alza quel culo delizioso e vieni fuori. Ho fame. Tu?” prendendola in braccio la tirò fuori. A fatica si reggeva in piedi. Aveva anche lei le mani legate.
Li fece entrare nel fast food. Non si vedeva quasi nulla, poca luce filtrava dalle serrande rotte. Cristo li fece immediatamente sedere. Apparecchiò la tavola per quattro e s’allontanò inghiottito dal buio. I due ostaggi erano uno di fronte all’ altro. Lei con gli occhi bassi, lui la fissava cercando il suo sguardo, ma niente. Poco dopo tornò quel folle, con una coscia di maiale in spalla che rovesciò violentemente sul tavolo. Era andata a male e brulicava di vermi giallognoli. Puntò verso di loro il fucile e disse serrato: “adesso so che voi due vorreste rifiutarvi di mangiare l’ottima pietanza che vi ho portato, ma vedete… è necessario che voi la mangiate per riempirvi lo stomaco.” Scarlett non esitò e nonostante le mani legate dietro la schiena riuscì benissimo a divorare pezzi di quella carne putrefatta. Leslie non riuscì a trattenersi dal vomitare.
Cristo scoppiò in una risata maniacale.
“Cosa cazzo ti dice il cervello fottuto pazzo esaltato!? Perché siamo qui?! Che ti abbiamo fatto? Vogliamo solo tornare a casa…” gridò Leslie.
“Vedi figliolo, ho bisogno che voi mangiate. Perché chiunque arrivi qui, sarà mio ospite. E non potrei essere così scortese da non offrirgli nulla di buono… mi capisci vero? E poi calmati… siamo solo all’inizio.”

sabato 14 giugno 2008

brevi parole dello zingaro




Sono dipinte
le nuove nuvole
sulla nuova casa che mi ospita-
domani
sarò sicuro di non esserci
davvero stato

martedì 10 giugno 2008

Parlano di noi

PugliaLibre ha pubblicato un articolo su di noi... lo potete leggere qui

venerdì 6 giugno 2008

Gioco Oplepiano 01: il pranzo era apparecchiato per quattro

“Sì, ma non ho ancora capito per chi è quel posto in più.”

“Sara, non ti preoccupare. Tieni, bevi un po’ di questo. E’ un vino raro, sai?”

“Ti ringrazio, è quello che ci vuole.”

“Posso averne un goccio anch’io?”

“Tu sta’ zitto e ricordati perché sei qui.”

“Ok, stare fermo e muto. Mi passi il vino?”

“Sei un idiota, Claudio. Dicevo, cara, non devi pensare a niente. Devi solo goderti il pranzo e fare quello che ti ho detto.”

“…che offri tu me lo ricordo bene!”

“Zitto Claudio! Devi-stare-zitto! Assaggia questo carpaccio di pesce spada tesoro, e dimmi che ne pensi.”

“Mi piace, profuma di buono”

“Come te, piccola”

“…”

“Sara, ho detto: ‘come te piccola’

“Ah, sì… Non chiamarmi così, lo sai che non ti amo

“Per forza, ti ha appena detto che puzzi di pesce.”

“Muto Cla’, muto!”

“Già, taci! A proposito, Claudio, nel caso ti facessi strane idee: io non ti amo. Non amo nessuno dei due, non vi ho mai amati!”

“Grande Sara!”

“Scusa, ma chi te l’ha chiesto? Hai pure il culo piatto.”

“Io questo lo ammazzo. Appena è tutto finito, giuro che lo metto sotto con la macchina! Anzi no, essere stirato da una Ford è un onore. Prima mi compro una Duna e poi lo metto sotto! Ecco il primo, finalmente!”

“Mi scusi, le avevo chiesto gamberetti e zucchine, non spaghetti alle vongole.”

“SSH! Zitto! Non c’è il cameriere!”

“Cosa? Ma sei fuori? Che, il piatto è arrivato volando?”

“Stai zitto, non c’è il cameriere! Non c’è nessuno, è un self service, ok? Guarda, te l’ho preso io il piatto. Tié, mangia.”

“Scusa, ma allora chi cucina? Chi lava i piatti? E chi batte cassa?”

“E’ tutto automatizzato, Claudio. Tipo… tipo con i computer. Ora mangia, usa la bocca per mangiare in grazia di Dio!”

“… Comunque deve esserci un bug nel software, io avevo chiesto gamberetti e zucchine.”

“Allora, torniamo a noi cara.”

“Aspetta, prima c’era un’altra cosa che mi avevi detto di fare.”

“Oh, merda. Non mi ricordo.”

“Come non ricordi? Se non lo sai tu?”

“E’ che tra il vino e questo scassapalle ho perso il filo!”

“…il filo? Ma per filo intendi uno sottile, o anche qualcosa di più grosso? Che ne so, tipo corda...”

“Sei un genio.”

“Grazie.”

“Ferma Sara, non dirlo!”

“Dire cosa?”

“Quel che stavi per dire.”

“E tu che ne sai? E poi perché no?”

“Avresti sforato.”

“Ma perché vi fate gli occhiolini?”

“Perché non ti ci strozzi coi gamberetti? Del resto pago io, potrò avere qualcosa in cambio? Un pranzo per la tua morte per soffocamento. Mai scambio fu più equo!”

“Dai, non esagerare adesso.”

“Hai ragione gattina, ho perso le staffe. Ignoralo, pensiamo a noi.”

“Non c’è nessun noi, quante volte lo devo ripetere?”

“Ma…”

“Sara, mi passi il pepe?”

“Claudio, rassegnati anche tu: non sarò mai tua!”

“Ancora? E che c’entra col pepe? E poi non urlare, che disturbi i robot in cucina.”

“Piantatela! Guarda in che casino mi sono ficcato!”

“Scusa, mi sono confusa.”

“Non ce l’ho con te, Sara. E nemmeno con te, Claudio. E’ che tutta ‘sta faccenda è… complicata, e assurda.”

“Perché allora non ci dici il motivo di tutte queste stranezze?”

“Bene, ora vi spiego tutto per filo e per segno, tanto credo che ormai ci siamo. E’ un po’ complesso, perciò Claudio, soprattutto tu, concentrati.
L’altro giorno facevo un giro in rete. Le solite cose, sapete. Quando ad un tratto mi imbatto in un blog. E’ stato allora che tutto ha avuto inizio…”

Ecchime

Salve a voi, o impavide penne appule, o grafomani del tavoliere, o cime letterarie alle cime di rape.
Approfitto di questo post per salutare l'allegra compagnia nella quale ho avuto l'onore di essere accolto, oltre che per presentare il mio primo contributo al blog.
Gioco oplepiano, eh? Cris, maledetto pazzo! Ho passato ore a lambiccarmi il cervello per creare qualcosa di decente e che rispettasse le regole della tenzone. Il risultato è stato una serie di aborti letterari, l'ultimo dei quali verrà postato subito dopo questo messaggio.
Stremato dallo sforzo e fiaccato da una cefalea con più grappoli di un Arcimboldo, vi porgo i miei omaggi.
8ulls3y3
(che si legge bullsài e si traduce Lelio)